La freccia della guerra fredda

La partenza è la stessa dei cento metri. Pessima. Lenta. Pietro Mennea sta dilapidando l’Olimpiade della sua vita. Arriva qui a Mosca nell’età migliore e con un record del mondo conquistato un anno prima a Città del Messico: 19 secondi e settantadue primi. Ha rischiato di non esserci, come molti suoi colleghi, ma lui non è un militare, lavora alla Fiat e corre per l’Iveco. Ha sfilato senza bandiera, come un privato cittadino, lasciandosi alle spalle il boicottaggio. Solo che nei 100 è stato eliminato in semifinale. Adesso rischia di sprecare la sua finale, quella sulla doppia distanza.

E’ l’inglese Allan Wells che ancora una volta sembra inarrivabile. Questi, però, sono i duecento, all’ingresso della curva questo ragazzo di Barletta, con il mento che ricorda quello di Antonio De Curtis alias Totò, e la corsa sghemba di chi non ha mai avuto l’eleganza meccanica, da laboratorio, del russo Borzov e neppure il talento Livio Berruti o la nera naturalezza di un Jesse Ovens, è nettamente in ritardo. Poi il miracolo, Paolo Rosi, telecronista Rai storico dell’atletica, comincia una progressione vocale che segue la corsa della freccia del Sud. All’uscita della curva è lì sulla scia di Wells: “Mennea cerca di recuperare, cerca di recuperare, recupera, recupera, recupera, recupera, recupera… ha vinto!!! Ha vinto!!!

Straordinaria impresa di Mennea…”. Sarà l’ultimo bianco a vincere l’oro nei 200 metri. Mennea vince sulla fatica, sul destino che sembrava giocargli contro, sulle polemiche del boicottaggio, su quelli che ci sono e sugli americani che sono rimasti a casa, sulla politica, sulle relazioni internazionali, su Mosca e su questi giochi spezzati a metà. “Io ho partecipato a tre Olimpiadi boicottate, il ’76, l’80 e l’84. Un boicottaggio funziona solo se è totale e finora non è mai accaduto. Noi azzurri abbiamo l’esperienza di Mosca ’80 quando l’Italia raggiunse il compromesso: si ai Giochi ma senza gli atleti militari. Molti dei quali, in seguito, non avrebbero più gareggiato a un’Olimpiade.

Un danno, enorme, solo per loro “. Mennea è uno di quelli che si è salvato. Non ha visto anni e anni di allenamento sfumare per qualcosa che è più grande di lui, per le conseguenze di una guerra in Afghanistan. Le uniche lacrime che riesce a piangere sono quelle di chi ce l’ha fatta. E’ la stazione di arrivo di un uomo che a 15 anni, su uno stradone di Barletta, sfidava in velocità una Porsche color aragosta e un’Alfa Romeo 1750 rossa: a piedi, sui 50 metri, batteva l’una e l’altra e guadagnava le 500 lire per pagarsi un cinema o un panino. Non poteva non arrivare fino a qui, a Mosca, in un giorno del 1980.

“Avevo 28 anni ed ero alla mia terza Olimpiade. Avevo partecipato a Monaco nel 1972, conquistando nei 200 metri la Medaglia di Bronzo e a Montreal nel 1976 con il quarto posto. L’Olimpiade di Mosca era l’occasione della mia vita sportiva. Avevo davanti a me grandi avversari come i cubani Silvio Leonard e Osvaldo Lara, i polacchi Woronin e Dunecki, il tedesco orientale Hoff, il giamaicano Quarrie e il britannico Wells. Dovevo vincere. A me toccò l’ottava corsia (l’ultima) e a Wells la settima. Non avevo punti di riferimento ma riuscii comunque a fare un gara indimenticabile, che ancora oggi viene da molti ricordata come una delle competizioni più esaltanti nella storia delle Olimpiadi. Ricordo che io stesso non mi aspettavo una performance come quella: a dieci metri dal traguardo ero ancora dietro Wells, mi giocai tutto in pochissimi centimetri.

Quel 28 Luglio 1980 alle ore 20.10 ho coronato il mio sogno da sportivo, con rabbia e determinazione “. Pietro Mennea è la faccia fortunata di quel boicottaggio all’italiana che sembra il più pasticciato dei compromessi. Mennea non è un militare e si salva. Per molti altri non andrà così. Le ultime battute della Guerra fredda collidono con la sua storia e con le esperienze spezzate di decine di atleti costretti a restare a casa per ordine della politica. Mai prima di allora lo strumento del boicottaggio veniva imposto su così larga scala. Le decisioni e le debolezze dell’amministrazione americana avrebbero negato il sogno a decine di ragazzi e ragazze occidentali.

La superficialità di quell’azione trova in parte spiegazione nelle parole del giudice del Distretto di Columbia John H. Pratt, veterano pluridecorato, a cui gli atleti americani erano ricorsi con una class action: “E’ doveroso riconoscere che le responsabilità civili a volte ricadono pesantemente più su alcuni che su altri. Alcuni sono chiamati a servire in guerra il loro paese, altri non partiranno mai. Alcuni ritornano illesi, altri non torneranno mai a casa. Questi sono i semplici, duri, fatti della vita e sono immutabili”.

L’uomo supersonico venuto da Barletta viene soltanto sfiorato da tutto questo. Parte e arriva primo. Appartiene a una schiera di eroi di un’altra epoca che hanno regalato gesta uniche al nostro paese. Il loro destino era quello di farci sognare, ora è il momento di piangerli.

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