Quando lo stato è il problema

«Proposition 13» è una sigla decisiva della storia americana. Nel 1978 i cittadini della California, il più popoloso Stato degli Usa, votano a netta maggioranza un emendamento alla costituzione dello Stato, che limita fortemente le tasse sulla proprietà. In altre parole, da allora la Costituzione di quello Stato protegge i cittadini da aliquote troppo elevate, soprattutto sulla proprietà.

Il Jarvis-Gann Amendment, passato alla storia come «Proposition 13», in breve tempo diventa molto di più di un dato economico perché assurge a bandiera di un vasto movimento d’opinione che si diffonde in tutta la nazione americana e che afferma il valore della libertà rispetto a un fisco troppo invasivo. Dietro, la riscoperta un retroterra culturale basato sulle ispirazioni filosofiche di Hobbes, Locke e Tocqueville a vario titolo assertori della prevalenza dell’individuo con i suoi diritti sullo Stato. È il primo tassello della reaganeconomics, semplicisticamente derubricata da certa pubblicistica europea a mero ribellismo antifiscale.

Il reaganismo è, invece, certamente un abile marketing politico ma anche qualcosa di più denso. Proprio analizzando il successo del referendum fiscale californiano «Proposition 13», gli intellettuali conservatori Seymour Martin Lipset e Earl Raab, nel saggio che appare su «Commentary» nel settembre del ’78, affermano che l’iperburocrazia, il sovraccarico di controllo, gli obblighi del fare e comportamentali di una certa legislazione interventista minacciano l’essenza stessa della democrazia e la libertà dell’individuo.

“Candidato Reagan” è il saggio di un giovane studioso Francesco Chiamulera (Aragno Edirore, Torino 2013, pp. 167, euro 10,00) che ripercorre la formazione della base ideologica e di quelle correnti di opinione pubblica che avrebbero consentito all’ex attore di diventare il quarantesimo presidente degli Stati Uniti. Tema di grande attualità nella stagione in cui la crisi globale favorisce l’aggregazione di forze contrarie agli eccessi della pressione fiscale. Un’analisi che mette in luce alcune criticità del personaggio Reagan ma senza pregiudizi scavando nei tratti culturali del conservatorismo che si coalizzò attorno a questa figura.

«Speranza e forza, sogno e forza, vaghezza e testardaggine» sono i tratti distintivi del politico Reagan, abile nell’ammaliare il suo pubblico spesso raccontando storielle non vere o abilmente modificate, giocando sui numeri e sui dati. Tuttavia, se pur Reagan non fu indenne a tratti di demagogia e a un certo populismo, sarebbe improprio ridurlo a ciò.

Già nel 1963, negli anni della grande espansione della spesa pubblica, Kenneth Minogue, docente della London School of Economics, aveva pubblicatoThe Liberal Mind,  dove metteva in discussione i dogmi di perfezionamento della società. Questo economista mette a punto quelle idee che erano già circolate nel club liberale della Mont Pelerin Society che si era raccolto alla fine degli anni Quaranta attorno a Friedrich von Hayek con studiosi del calibro di Karl Popper, Luwig von Mises, George Stigler, Milton Friedman. Sono le stesse correnti di pensiero che influenzeranno il leader politico più legato a Ronald Reagan, Margaret Thatcher, per la quale il presidente americano avrà sempre una sconfinata ammirazione.

L’ambito è quello di una fondamentale distinzione tra liberismo e liberalismo, molto di più di una sottigliezza, come dimostrerà in Italia il dibattito tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Il liberale accetta politiche sociali d’intervento pubblico ma vi pone limiti invalicabili dettati dal diritto supremo alla libertà.

Reagan fa della questione fiscale la sua bandiera ma prima di promettere un generico taglio delle tasse si preoccupa di argomentare su una nozione di fisco necessario da contrapporre a quella di fisco ingiusto e predone, in un’epoca in cui gli americani cominciavano a sentire il morso della dilatazione del bilancio federale che aveva finanziato la dilatazione del welfare predicato dalla la «Nuova Frontiera» di Kennedy e la «Grande Società» di Johnson.

Nel 1981 all’inizio della sua presidenza, conquistata con uno straordinario successo elettorale, sfodera il suo decisionismo, nel discorso di insediamento proclama: «Nella crisi presente, il governo non è la soluzione al nostro problema; il governo è il problema».Riuscirà in poco tempo a far approvare al Congresso un sensazionale taglio di bilancio per 35 miliardi di dollari, insieme alla più ingente riduzione di tasse, il venticinque per cento in quattro anni, della storia americana. Il tutto condito da un inguaribile ottimismo e da una sicurezza che rasentava l’incoscienza. «Un messaggio di espansione, di possibilità, di fiducia, contrapposto a un messaggio di limiti, sobrietà, rigore, controllo», scrive Chiamulera.

Ronald Reagan non è Barry Goldwater, un conservatore estremo. È l’ex governatore di un grande stato come la California, a cui l’amministrazione aveva insegnato il pragmatismo, disponibile ad aprirsi ai moderati e agli indipendenti. La sua politica, come ricorda Lou Cannon in un’altra biografia, non fu solo fisco, sorprende per le politiche ambientaliste, come quando bloccò la costruzione a Dos Rios di una grande diga accusata di danneggiare l’ambiente circostante, e ancora con la nomina della prima donna alla Corte Suprema, Sandra Day O’Connor.

Ben oltre il giudizio storico che si vuol dare su figure come Reagan e Thatcher, resta la capacità di aver posto al centro delle dinamiche pubbliche la questione del rapporto fra Stato e cittadino nella sfera economica, l’entità del prelievo fiscale e la difesa delle libertà economiche individuali come parte della più ampia libertà naturale di ogni individuo. Una questione ancora attuale nelle democrazie. 

(tratto da “Il Sole 24 Ore)

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