Usa assenti, Iraq nel caos
Una caotica battaglia di tutti-contro-tutti si sta combattendo fra Siria e Iraq. È difficile seguire la frammentazione, in tutti i suoi dettagli, che sta avvenendo all’interno del cartello di gruppi e movimenti armati islamici nei due Paesi.
Andando con ordine. Al Nusrah, la formazione paramilitare legata ad Al Qaeda, si è ribellata ai suoi “maestri” terroristi e ha rotto la compattezza di quello che è (era) l’Isil, l’esercito islamico della Siria e del Levante. Fatto sta che sta sloggiando l’Isil dalle sue roccaforti di Aleppo e di Deir Ezzor. Al Qaeda, dunque, vuoi per dimostrare la sua forza, vuoi per cercare alleati altrove, ha lanciato una sua potente offensiva in Iraq, espugnando addirittura due città: Falluja e Ramadi. Ma anche qui i qaedisti se la stanno vedendo brutta, perché la popolazione locale (musulmana sunnita) non accetta di ritrovarsi di nuovo sotto la legge coranica imposta dai discepoli di Bin Laden (anche perché l’hanno già sperimentata fra il 2004 e il 2006) e ha formato milizie irregolari anti-qaediste. Per di più, il governo di Baghdad, che sta velatamente appoggiando il regime di Bashar al Assad in Siria, sta affilando le armi per riprendersi Ramadi e Falluja, con gran dispendio di armi e uomini, a costo di provocare un massacro di civili in un’area densamente popolata.
In pratica, si è verificata una spaccatura interna al fronte islamico che vede Al Qaeda isolata e contro tutti. Il suo disegno di creare un Califfato islamico approfittando della ribellione siriana e dell’instabilità irachena, sta ancora una volta fallendo. Assad, se è scaltro così come sembra, può approfittare di questa spaccatura per riprendere il controllo del Nord siriano. Il governo di Baghdad, armato e consigliato dagli Usa, può domare la sua ribellione interna e infliggere un’altra sconfitta ad Al Qaeda.
Se la prospettiva, dunque così negativa, ma la lezione è molto triste. In primo luogo perché fa toccare con mano che cosa sia il prodotto ultimo della Primavera Araba in Siria (e non solo: anche l’Egitto, in questi mesi, non se la passa affatto bene). Quella che era nata come una genuina ribellione democratica contro una dittatura nazionalista, è diventata una guerra santa gestita da gruppi fanatici, che ora si uccidono fra loro. Come sempre finiscono per fare i fanatici, d’altronde.
La crisi di queste settimane è anche un drammatico segnale di assenza degli Stati Uniti. La Casa Bianca ha parlato e fatto capire le sue intenzioni in modo esplicito: questa rivolta e la sua repressione sono questioni interne all’Iraq e alla Siria. Dopo il mancato intervento contro il regime di Damasco, l’amministrazione Obama non ha più alcuna intenzione di mettere bocca su quel che avviene sul fronte siriano. E in questo denota coerenza. Sull’Iraq, invece, l’astensione americana è più discutibile. La missione statunitense in Iraq, sin dal 2003, era volta soprattutto a scongiurare la minaccia di Al Qaeda, all’indomani dell’11 settembre. Lasciar solo il governo di Baghdad (un governo instaurato col beneplacito degli Usa dopo la caduta di Saddam Hussein) nella sua lotta contro Al Qaeda, può essere considerata una scelta pragmatica. La minaccia non è tale da richiedere un intervento massiccio: basta dotare l’alleato di armi pesanti e fornirgli l’intelligence necessaria per far sì che vinca la sua piccola battaglia interna. Ma su un piano politico, è comunque un segnale di abbandono. Il governo dell’Afghanistan sa, d’ora in avanti, che dopo il ritiro di quest’anno, gli americani difficilmente torneranno a proteggerlo, in caso di attacco di Al Qaeda e dei talebani. E le milizie jihadiste non vedono l’ora di rovesciare i governi locali “apostati”, non appena gli Usa voltano lo sguardo.