La disastrosa (non) strategia di Obama

obambi2Nel cuore della Mezzaluna Fertile, un nuovo Califfato islamico (ex Isis) attira migliaia di volontari jihadisti da tutto il mondo, decapita gli ostaggi pubblicamente, crocifigge chi giudica traditore, caccia cristiani, yezidi e sciiti dalle loro case, mira all’espansione della rivoluzione in tutto il mondo. Un totalitarismo così aggressivo e letale non lo si era mai visto dall’inizio del secolo, anche se la cronaca estera ci ha ormai abituati ad ogni orrore.

Eppure, dall’altra parte dell’Oceano, dal presidente della prima potenza mondiale, sentiamo dire solo che si deve affrontare il Califfato, ma non distruggerlo. Dobbiamo, piuttosto affinché sia «…degraded to the point where it is no longer the kind of factor that we’ve seen it being over the last several months». Una frase molto contorta, difficile anche da tradurre, che significa, in soldoni: ridurre la sua potenza finché non sarà più un fattore (di rischio, ndr) come quello che ha rappresentato negli ultimi mesi. In pratica: una sculacciata basta e avanza. Ed effettivamente, dopo mesi di inerzia, quella avviata dagli Usa in Iraq, contro l’Isis, non la sia più nemmeno chiamare un’azione di guerra. È una “sculacciata” e poco più. Con la riconquista di Amerli, cittadina a maggioranza turcomanna assediata dall’Isis, abbiamo appreso che, fino a quel momento, in un mese di campagna aerea, gli americani avevano condotto 120 raid in tutto. Ad Amerli avevano condotto due sole azioni: una bomba ha distrutto una jeep, un’altra ha danneggiato un carro armato dell’Isis. E basta. Giusto per fare un paragone, nella guerra di Libia, che pure è consistita in un bombardamento a bassa intensità, i raid furono 175 il primo giorno e una media di 80 al giorno nei mesi successivi. Non certo 120 al mese. Non c’è neppure la paura di perdere piloti: si possono usare i droni. Non c’è la paura di perdere miliardi in aerei abbattuti: l’Isis non è dotato di sistemi anti-aerei sofisticati come poteva esserlo la Siria. Non si capisce come gli Usa abbiano deciso di lanciare un mezzo-intervento, di malavoglia e con il minimo dei mezzi, contro quello che è giustamente stato definito un “cancro” da estirpare immediatamente.

Prima di tutto, è bene sottolineare che, se gli Usa fanno il minimo, gli altri attori interessati fanno ancora meno o non fanno niente. Qualcuno si è accorto di eventuali azioni militari della Turchia (che pure è confinante con il teatro di guerra)? O della Gran Bretagna, o della Francia, che pure hanno un gravissimo problema di jihadismo nato in casa? L’Arabia Saudita stessa invita l’Occidente a svegliarsi, ma cosa fanno i sauditi?

L’immobilismo totale degli Usa e dei loro alleati spiana la strada a varie teorie, fondamentalmente perché non si capisce da cosa sia motivato. Ovviamente nascono numerose tesi del complotto, in merito, prodotto di una cultura anti-americana e antisemita: ci sono quelli che credono che l’Isis sia stato creato da Cia e Mossad e credono che gli Usa non vogliano intervenire per non colpire i loro stessi uomini. Poi si sono quegli altri che ritengono che il non-intervento o intervento debolissimo americano sia solo una tattica per destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente. E per vendere shale gas. Anche se tutte le leggende hanno un fondo di verità, è però innegabile che l’Isis sia nata quando gli americani si sono ritirati dall’Iraq. Non quando ci sono andati e hanno combattuto in quelle terre. Nonostante tutto c’è ancora chi dà la colpa di tutto a George W. Bush, “reo” di aver detronizzato Saddam Hussein. Peccato, però, che i nemici di allora siano gli stessi di oggi: l’Isis pullula di militari fedeli a Saddam (fra cui un ex generale) ed è alimentata proprio da quella parte di popolazione sunnita che amava il dittatore e odiava gli americani. C’è molto revanscismo sunnita a baathista nel nuovo Stato islamico, proprio la gente che pensa che “si stava meglio quando si stava peggio”.

Per capire l’immobilismo di Obama, piuttosto, occorre capire cosa pensa Obama. E ascoltare quel che dice e quel che ha sempre detto Obama. Fin dalla campagna elettorale del 2008, ha sempre preannunciato due aspetti della sua politica estera: protezione dei cittadini americani dall’aggressione di Al Qaeda, anche a costo di intervenire nei territori di governi non consenzienti; negoziati con tutte le potenze e i governi locali, per lasciare a loro la responsabilità delle loro rispettive regioni. In sintesi: Obama è un neo-isolazionista. E lo dimostra anche il suo piano di drastica riduzione delle forze armate che, entro il 2017, saranno ridotte al livello più basso dal 1940. Obama ha chiaramente colpito Al Qaeda ovunque si trovasse, con o senza il consenso dei governi locali. Lo testimonia il raid dell’altro ieri contro le milizie Shebaab in Somalia. Lo dimostra il raid di Abbottabad, che portò all’uccisione di Osama bin Laden senza il consenso del governo del Pakistan. Ovunque ci sia una minaccia concreta e diretta per le vite degli americani, lì ci sono i droni (o i Navy Seals) pronti a colpire. Dove invece c’è una crisi percepita come “locale”, allora Obama preferisce farsi da parte e lasciare il gioco a potenze locali o vicine. In Libia ha diretto le operazioni la Francia, gli Usa hanno dato l’appoggio esterno. In Siria, senza alleati disponibili, Obama non è intervenuto. Per quanto riguarda l’Ucraina, Obama preferisce lasciar agire l’Unione Europea e gli alleati europei della Nato. In Asia, consente il riarmo massiccio del Giappone, proprio per permettergli di affrontare, autonomamente, le minacce di Cina e Corea del Nord.

Ma in Medio Oriente, a chi appoggiarsi? La risposta sarebbe scontata: a Israele. In parte gli Usa lo fanno, ma Obama teme di appoggiare l’alleato in modo troppo esplicito, perché ha paura di inimicarsi tutti gli altri Stati della regione. Ad ogni round negoziale, la Casa Bianca è dura con Israele, fin quasi al punto di rottura. L’Arabia Saudita è un altro punto di riferimento della politica statunitense. Ma l’Isis, finanziato anche da ricchi promoter sauditi, è proprio la dimostrazione che non ci si può fidare. Così come non ci si può fidare del tutto del Qatar, che finanzia (o chiude un occhio nei confronti dei finanziatori di) tutti i movimenti jihadisti dalle primavere arabe in poi. In Libia, gli Stati Uniti sono giunti al paradosso di fidarsi di milizie che poi sono risultate quelle responsabili dell’attacco al Consolato di Bengasi. Quattro americani sono morti nell’attentato, fra cui Christopher Stevens, ma l’amministrazione Obama, in particolar modo Hillary Clinton, non ha affrontato il problema. Piuttosto ha fatto il possibile per insabbiarlo. In Egitto, Obama ha sostenuto i Fratelli Musulmani, finché questi non sono stati cacciati a furor di popolo. Adesso sono più difficili i rapporti con Al Sisi, il nuovo dittatore (de facto) militare. Quando in Libia è scoppiata la guerra civile, fra jihadisti e militari, Obama ha persino impedito a Egitto e alleati arabi (Emirati Arabi Uniti soprattutto) di intervenire nel conflitto contro gli jihadisti, con armi americane. Per la seconda volta in poco più di un anno, ha di nuovo protetto gli islamisti di Ansar al Sharia, i responsabili della morte di Stevens.

In sintesi, nella difficile arena mediorientale, Obama non sa a chi appoggiarsi, naviga a vista oppure sceglie gli alleati sbagliati, come i Fratelli Musulmani. In Libia sta conducendo una politica addirittura contraria agli interessi americani. Tutto questo perché manca, in quell’area del mondo, un alleato realmente affidabile che non sia Israele. Proprio partendo da questa considerazione, il suo predecessore George W. Bush aveva deciso di essere direttamente presente, sul terreno, con truppe americane. Non c’erano alternative allora, non ci sono tuttora. L’amministrazione Obama, prima o poi, dovrebbe capirlo.

In compenso, più attende e peggio è. L’Isis, infatti, non è un problema “locale”, ma mondiale. Non è una minaccia al solo Medio Oriente, ma a tutto l’Occidente. Lo è direttamente per noi. Ci sono terroristi partiti da Cologno Monzese, Genova, Belluno, Treviso, Pordenone, da Birmingham, da Londra, da Parigi, da Marsiglia e da San Diego. Sono integrati in Europa e America, parlano le nostre lingue, hanno i nostri passaporti, sanno dove e come colpire e in Iraq possono trovare tutte le armi che vogliono, oltre a farsi un’esperienza di guerra vera. Si può immaginare uno scenario più pericoloso? Obama considera l’Isis come una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati. Lo ha già dichiarato. Ma dovrebbe agire di conseguenza. Evidentemente, non ha ancora messo a fuoco il problema, non ha ancora capito che non si tratta solo di un problema locale, gestibile esclusivamente da Stati locali. Lo si deduce da quel suo “Non abbiamo ancora una strategia”, dichiarato in modo disarmante, la settimana scorsa. Ha pochissimo tempo a disposizione per elaborarne una, prima che il bubbone scoppi.

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