Iraq, il silenzio sulle armi chimiche
Forse è tempo di rimettere mano ai libri di storia contemporanea. E correggere una frase: Saddam Hussein aveva armi di distruzione di massa. Finora si è sempre detto che non le avesse.
Dal 2004 al 2011, dopo la guerra che ha portato alla caduta del regime di Saddam, i genieri al seguito delle truppe americane hanno trovato e, in parte, rimosso da depositi segreti, almeno 5000 testate chimiche. Non solo: hanno anche trovato 1,77 tonnellate di uranio arricchito, utilizzabile per la fabbricazione di armi nucleari o almeno di bombe “sporche” radiologiche, l’arma perfetta del megaterrorismo.
Di tutti questi ritrovamenti ne abbiamo sentito parlare per la prima volta solo il 15 ottobre scorso. Fino ad una settimana fa, infatti, avevamo a disposizione solo sporadici reportage di cronisti di testate di destra (come la National Review e Weekly Standard), screditati perché ritenuti politicamente vicini all’amministrazione Bush. Uno di questi giornalisti, Deroy Murdock (National Review) è rimasto letteralmente sconvolto per le rivelazioni di questi ultimi giorni: aveva stimato la presenza di qualche centinaio di testate chimiche, non certo di 5000. Si tratta di una vera montagna di prove a favore del casus belli principale di George W. Bush: invadere l’Iraq per disarmarlo, per privare Saddam Hussein e suoi eventuali alleati terroristi, delle armi di distruzione di massa.
La notizia del 15 ottobre non è stata screditata o smentita, perché proviene da una fonte inattaccabile: il New York Times. Non da nostalgici neocon, dunque, ma dal principale quotidiano d’America, da sempre vicino alla causa dei Democratici e sostenitore dell’attuale amministrazione Obama. I reporter del New York Times hanno sollevato il caso agghiacciante dei soldati americani rimasti feriti e intossicati dalle armi chimiche, durante la caccia ai loro depositi segreti, uomini che hanno fatto il loro dovere, ma a cui è stata negata ogni assistenza medica ed è stato ordinato loro di tacere su quanto avevano trovato. A tutti piacciono le storie dei segreti di Stato e degli scandali (degni di X Files) dei servizi di intelligence. Ecco servito, allora, l’X File più scandaloso: le armi chimiche c’erano e nessuno lo poteva dire, con buona pace di chi è rimasto gassato. Il New York Times è stato molto abile a rovesciare ancora la frittata contro l’amministrazione Bush. Perché, almeno dal 2004 al 2008, il presidente repubblicano era ancora in carica e in quei 4 anni i militari statunitensi e l’intelligence hanno coperto tutti i ritrovamenti (e pure nei tre anni successivi, anche se alla Casa Bianca c’era Obama). Il New York Times, di conseguenza, ha buon gioco a chiedersi, e a chiedere ai responsabili del Pentagono, come mai Bush abbia voluto tenere nascosto quelle prove che avrebbero potuto giustificare la sua scelta più dura.
La prima risposta ipotizzata dal giornale progressista è facilmente intuibile: quelle armi erano vecchie, risalivano alla fine degli anni 80 o alla Guerra del Golfo del 1990-91, dunque Bush non aveva interesse a rivelarne l’esistenza, poiché il suo scopo era quello di denunciare un nuovo programma di armi chimiche. Ed è stato soprattutto per scongiurare il rischio di armi non convenzionali “pronte all’uso” che nel 2003 si è deciso di invadere l’Iraq. Ma sta in piedi questa risposta? No, per un semplice motivo: il rischio non era più quello di una guerra chimica, ma quello di terrorismo chimico e radiologico. Quei depositi sono già un pericolo, per un bersaglio “morbido”, civile. Tanto è vero che ora si teme che l’Isis, che si è impossessato, la scorsa estate, del deposito di Muthanna, possa usare quelle armi per ricattare i Paesi della Coalizione attuale. Da un punto di vista legale, poi, le 5000 testate chimiche sono la prova che Saddam Hussein non avesse affatto obbedito ai dettami dell’armistizio del 1991: dopo il suo ritiro dall’Iraq non aveva affatto smantellato i suoi arsenali chimici, né aveva permesso agli ispettori dell’Onu di individuarli e sequestrarne il contenuto. Bush, per queste due semplici ragioni, avrebbe avuto tutto l’interesse a rivelare l’esistenza dei vecchi arsenali chimici e delle quasi due tonnellate di uranio arricchito.
Il New York Times, inoltre, fa un’altra ipotesi: quelle armi erano tutte di fabbricazione occidentale e rivelarle al mondo avrebbe provocato uno scandalo. Ma siamo sicuri? Tutte le opinioni pubbliche del mondo, bambini compresi, sanno che l’Occidente (non solo gli Usa, ma anche la Francia, anche il Brasile, anche la stessa Italia) ha fornito armi, equipaggiamenti e consulenza tecnica all’Iraq di Saddam, prima della sua folle invasione del Kuwait nel 1990. Lo hanno (lo abbiamo) fatto, perché allora l’Iraq era meno pericoloso dell’Iran di Khomeini, con cui era in guerra. Non è colpa dei fornitori se Saddam ha deciso di usare quelle armi, non solo in battaglia, ma anche contro civili curdi, nel suo stesso Paese. Ma, molto probabilmente, è stato proprio per evitare uno scandalo di grandi dimensioni che si è preferito un pietoso silenzio. Altrimenti sarebbero fioccate richieste di mega-risarcimenti da chi ha subito gli attacchi chimici sulla propria pelle: prima di tutto dall’Iran e poi anche dai partiti dell’opposizione curda. Tuttavia ciò non giustifica che, una volta persa la guerra in Kuwait nel 1991, Saddam quelle armi occidentali avrebbe dovuto smantellarle tutte, perché erano diventate pericolose, per noi oltre che per gli stessi iracheni. È bene ribadirlo ancora una volta: la conservazione di arsenali chimici è una violazione della principale clausola dell’armistizio del 1991. Perché tener nascosto il tutto, allora?
Resta un mistero assoluto il motivo del silenzio di George W. Bush su questi ritrovamenti. Il New York Times, dunque, ha fatto uno scoop di importanza storica. Ha detto quel che l’amministrazione repubblicana (e quella democratica che le è subentrata), avrebbero già dovuto dire da 10 anni. Ma una cosa ormai è certa: in Iraq c’erano armi chimiche.