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Il proverbiale “vaso di Pandora” è stato scoperchiato. E ora sul “caso Facebook” è tutto un rincorrersi di analisi, iniziative politiche e indignazione social. Ma facciamo un passo indietro.

Prima sono arrivate le rivelazioni del sito Gizmodo che, grazie alla soffiata di un ex dipendente Facebook, ha svelato come la sezione “trending news” del social network – disponibile, per ora, solo nei paesi di lingua inglese, ma in via di sperimentazione anche in spagnolo e portoghese – sia costruita non in base a un algoritmo “neutrale” basato sul comportamento degli utenti Facebook, ma grazie all’intervento umano di «giovani giornalisti, reclutati nelle università della Ivy League o negli atenei privati della East Coast». Giornalisti che, naturalmente, si dilettano nel censurare notizie diffuse da mezzi di informazione “non di sinistra” o “politicamente scorrette”. Oppure, come è accaduto per il movimento Black Lives Matter, si premurano di diffondere notizie favorevoli anche quando gli utenti di Facebook non sembrano essere particolarmente colpiti dall’argomento.

Poi è arrivata la smentita, poco convinta per la verità, del colosso fondato da Mark Zuckerberg, che ha negato l’esistenza di un team specializzato nella selezione delle notizie, cercando di rassicurare i propri utenti sull’automazione (e dunque sulla neutralità) di tutto il processo. Prima di fare precipitosamente marcia indietro – con un post pubblicato, proprio su Facebook, dallo stesso Zuckerberg – dopo che altre testate, tra cui il britannico The Guardian, hanno confermato e approfondito lo “scoop” di Gizmodo, diffondendo il documento interno con la “linea editoriale” seguita dai curatori della sezione. Nel frattempo, si era mosso addirittura il Senato statunitense, chiedendo esplicitamente spiegazioni al colosso di Menlo Park.

Ora che (quasi) tutti i lati oscuri della vicenda sono stati chiariti – e che  Zuckerberg ha annuciato una «approfondita indagine» per garantire a propri utenti (più o meno due miliardi di persone in tutto il mondo) la «massima integrità del prodotto» – è forse arrivato il momento di affrontare la questione in modo più serio. Perché in gioco non c’è il diritto (sacrosanto) di una società privata come Facebook – o Google, o Twitter – di scegliere la linea editoriale che preferisce. Ma l’esigenza di non “camuffare” questa linea editoriale dietro un paravento di neutralità tecnologica che, in realtà, non esiste più (se mai è esistita veramente).

«È qualcosa che prima o poi doveva accadere – spiega Patrick Ruffini, guru della destra digitale statunitense – perché i network davvero aperti sono ormai qualcosa che appartiene al passato. Le grandi società di Internet si comportano sempre più spesso come i colossi dei media. E le loro strategie sono condizionate dall’esigenza di monetizzazione. YouTube, per esempio, è nata come piattaforma di contenuti generati dagli utenti, ma adesso sta letteralmente fuggendo da quel modello, pagando i propri creatori “preferiti” allo scopo di generare un ambiente sicuro per gli investitori pubblicitari».

La tesi di Ruffini è che il “caso Facebook” abbia colpito così profondamente gli utenti dei social media perché rappresenta un esempio di dissonanza cognitiva tra quello che gli utenti si aspettano e quello che accade realmente: «Nessuno ha problemi nell’accettare la non neutralità del New York Times. La libertà di stampa è sacra. Ma gli utenti di Facebook si aspettano che i social network agiscano con regole diverse. Invece ora hanno scoperto che questi colossi digitali si comportano come  “aspiranti vecchi media”. E questo rischia di distruggerne funzione e credibilità».

Basterà, per riconquistare questa credibilità perduta, la promessa di trasparenza fatta da Zuckerberg, che ha annunciato di voler incontrare gli esponenti politici conservatori per rassicurarli sulla neutralità di Facebook? Difficile dirlo, ma una cosa è certa: una volta scoperchiato il vaso, Pandora non è più riuscita a tornare indietro.

© Il Giornale del 14 maggio 2016

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