Il senno di poi
Da qualche tempo in America c’è un movimento politically correct che pesantemente se la prende con Cristoforo Colombo. Alcuni arrivano a definirlo “l’Hitler del XV secolo”, e lo accusano di avere commesso un genocidio contro i nativi americani. Non è questa la sede per contrastare queste sciocche idee, ma ciò che va detto a tale proposito è che, se si analizzano fatti passati con lo sguardo dell’oggi, si finisce per perdere di vista una cosa essenziale che mai dovrebbe sfuggire ad un analista: il contesto.
Mutatis mutandis, è ciò che sta avvenendo oggi per la guerra in Iraq. È tutto un ribollire di personaggi che, senza ricordare minimamente com’eravamo messi e cosa fosse il mondo in quel momento, dal piedistallo di chi analizza solo parte della realtà si impancano a stabilire linee di conseguenza improbabili, scenari alternativi dati oggi per certi senza alcuna base, ragionamenti logici che al confronto rendono la traiettoria arzigogolata del proiettile di Lee Harvey Oswald una linea dritta.
La guerra in Iraq nasce in una situazione di emergenza. Di emergenza è il mondo globale all’indomani dell’11 settembre. Di emergenza è la decisione su come approcciare un pazzo scatenato che per 35 anni aveva tenuto sotto il suo giogo un Paese grande quanto la Francia, sostenitore del terrorismo, dotato di enormi riserve petrolifere e protagonista di una guerra decennale contro l’Iran e dell’uso di armi chimiche contro i curdi. Di emergenza è la reazione dell’Occidente che inizia a disunirsi di fronte ad un nemico asimmetrico che vive fuori ma anche dentro di sé. E che in entrambi i luoghi va combattuto, e più lo si combatte fuori più si evita di doverlo fare solo dentro.
L’analisi della guerra in Iraq passa quasi sempre per la mistificazione di quel soggetto apparentemente multilaterale che si presta ad ogni nemico di un equilibrio basato su una sola superpotenza all’indomani dell’implosione dell’URSS: l’ONU. L’ONU è quel sistema santificato ad ogni pie’ sospinto, che viene invocato in quei momenti nel nome del multilateralismo, per condizionare e reprimere la reazione degli Stati Uniti attaccati l’11 settembre. Tutto sembra dover passare attraverso l’ONU, che sembra essere dotata di saggezza universale, con la sua Assemblea Generale in cui Paesi antidemocratici si alleano per mandare a capo delle Commissioni per i diritti umani i più grandi calpestatori dei diritti umani, mentre si nega a chiunque abbia passaporto israeliano la benché minima possibilità di assumere un ruolo dirigenziale.
Ma l’ONU, apparente difensore multilaterale contro gli Stati Uniti dalla pistola facile e troppo unilaterali, prende le sue decisioni cruciali in un contesto come il Consiglio di Sicurezza in cui 5 Paesi hanno diritto di veto e alcuni di essi lo usano da decenni per renderla un’istituzione assolutamente inutile quando si tratta di dirimere problemi internazionali di una certa gravità. Il supposto modello unilaterale americano, che in realtà diventerà poi una coalizione di decine di soggetti volontariamente coinvolti, viene contrapposto ad un modello in cui un solo Paese, persino non democratico come la Cina o la Russia, è in grado di bloccare qualsiasi decisione: e questo modello, in cui 190 Paesi ipotizzano di fare una cosa e il centonovantunesimo li blocca, da chi si oppone alla liberazione dell’Iraq viene chiamato “multilateralismo”.
Ebbene, pochi ricordano che persino l’ONU, con la risoluzione 1441 deliberata all’unanimità in Consiglio di Sicurezza, prese posizione. Con una decisione senza precedenti, rivoltò l’onere della prova: tanta era la convinzione (15 a zero) che Saddam fosse dotato di armi chimiche e non avesse problemi ad usarle di nuovo, chegli venne chiesto fermamente di provare di avere distrutto quelle che aveva usato contro i curdi. Gli si diede il modo di dimostrare la sua innocenza, si fece fiducia alle sue parole, si disse chiaramente che la palla era nel suo campo: ma fu tutto vano, perché quelle prove non furono mai fornite.
E mai nessuno riuscì a spiegare perché, se davvero non c’erano più armi, Saddam non avesse colto questo passaggio e avesse salvato la sua poltrona, e la sua testa. Nessuno ci riuscì salvo chi sosteneva l’unica spiegazione plausibile: che le armi c’erano, eccome se c’erano, che era anche il motivo per cui un organismo come il Consiglio di Sicurezza deliberò in quel modo, clamorosamente sia in termini di numero che di contenuto.
Descrivere oggi l’Iraq come una guerra ingiusta appare facile, se volontariamente non si considera che il risultato che vediamo oggi era stato ampiamente previsto da chi quella guerra l’ha fatta, e aveva ripetuto che abbandonare l’Iraq contro il parere dei generali avrebbe significato il caos: eppure la decisione fu presa da chi è venuto dopo ed è stato osannato come il salvatore del mondo, e oggi il caos è lì dove George W Bush l’aveva previsto e per questo giudicava prematuro andarsene. Oggi si avrebbe un altro Iraq, se il Presidente fosse ancora il tanto vituperato Bush, e sarebbe un Iraq migliore: anzi, un Medio Oriente migliore. Se volete invece capire cosa sarebbe oggi l’Iraq se Saddam Hussein avesse potuto continuare a massacrare liberamente il suo popolo e altri innocenti a suo piacere, saltando a pie’ pari sulle fantomatiche linee rosse messe in piedi frettolosamente da un Occidente intimidito, c’è un esempio evidente: la Siria.
Oggi il rapporto Chilcot afferma apertamente che Blair non ha mentito; ed è lo stesso risultato a cui arrivò la Commissione bipartisan del Congresso americano incaricata nel 2005 di cercare le prove che avesse mentito Bush. Si può e si deve criticare la decisione politica, ma sempre ponendosi nella posizione in cui era chi dovette decidere, senza ditini alzati con il senno di poi. Si può e si deve prendere atto della differenza tra le risultanze politiche e quelle giuridiche di analisi, rapporti, commissioni e indagini, e comprendere le enormi differenze che passano tra le une e le altre.
Quello che non si può e non si deve fare è trattare la democrazia come fosse una faida tra dittatori passati e dittatori presenti, in cui si manda avanti un Paese rivoltando la verità su chi l’ha gestito in precedenza, creando un passato menzognero degno del 1984 di Orwell e condannando processi decisionali manipolandone i dettagli e stravolgendone il contesto. Non segue regole democratiche chi commette quest’ultimo orrendo crimine contro la democrazia, contro la verità e contro il popolo ed il Paese oggetto di tali barbarie.
(da Strade Online)
Premetto che considero la prima guerra del Golfo el’intervento in Afganistan come giusti anzi sacrosanti. La seconda guerra del Golfo è stata una cagata pazzesca, adesso è evidente ma lo era anche allora. L’artico dice molte cose assurde. A parte che quando Saddam gasava i curdi o combatteva contro l’Iran nessuno in occidente lo considerava un nemico. La guerra del 2a Golfo è stata il piu’ grosso regalo al terrorismo che si potesse fare, per i seguenti motivi:
1) si sono dirottate risorse militari in Irak incece di combattere il Al Queida (e i Tlebani), in Afganista e in altri aree (somalia, yemen, africa subsahariana…)
2) Il baathismo è (era) un’ideologia laica (per quanto si possa essere laici nel mondo arabo). Eliminando Saddam si è eliminato un nemico (per quanto criminale) dell’integralismo islamico. Non c’è alcun collegamento tra Saddam e gruppi terroristici
3) La destabilizzazione del’Irak ha creato un buco nel cuore del mondo arabo, terreno perfetto per far prosperare Al Quaida (e poi l’Is)
4) L’eliminazione di Saddam ha acuito lo scontro tra Sciiti e Sunniti. L’Is e il terrorismo internazionale sono una effetto di questo scontro.
All’epoca c’erano molte analisi che andavano nella direzione di cui sopra, poi c’erano i fanatici de noialtri (i vari giuliano Ferrara, Oscar Giannini) che sparavano boiate sensa senso, negando l’ovvietà- Bush, Bair (e nel suo piccolo Mr B.) hanno fatto il iu’ grande regalo possibile all’integralismo islamico (di matrice Wahabiti/saudita)