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Era Reagan
A cento anni dalla sua nascita a Tampico, un oscuro paesino dell’Illinois, Ronald Wilson Reagan vive una seconda giovinezza grazie al più inaspettato e improbabile tra i suoi ammiratori: Barack Hussein Obama.
Poco importa che la passione del giovane avvocato afro-americano nato a Honolulu e laureato a Harvard per l’attore hollywodiano figlio di un venditore di scarpe irlandese sia una mossa tattica o frutto di vera ammirazione. Resta il fatto che se il 44° presidente guarda al 40° ancora in cerca di ispirazione e di sostengo vuol dire, quanto meno, che l’Era Reagan non è finita con Obama e che Ronald si porta molto bene i suoi 100 anni.
I più maliziosi sostegno che Obama abbia cominciato a interessarsi a Reagan all’indomani della disastrosa sconfitta nelle elezioni di Mid Term. Il senso dell’operazione doveva essere quello di trovare nella vicenda del predecessore i passaggi che portarono Reagan dalla analoga sconfitta nel Mid Term del 1982, quando la Camera passò sotto il controllo dei democratici, alla trionfale rielezione nel 1984 per il secondo mandato, quando Reagan travolse Walter Mondale con 49 Stati a 1.
Robert Gibbs, il portavoce della Casa Bianca, ha ammesso qualcosa del genere quando ha detto: “La nostra speranza è che la storia finisca nello stesso modo anche per noi”. Eppure deve esserci qualcosa di più, se Obama, rischiando di inimicarsi buona parte dei democratici di sinistra, ha cominciato a rendere sempre più frequenti omaggi al padre della rivoluzione conservatrice americana.
Durante le ultime vacanze hawaiane il presidente ha lasciato che si sapesse che aveva portato con se la biografia di Reagan scritta da Lou Cannon, “The Role of a Lifetime” e vi abbia cercato qualcosa di più che un semplice vaticino di riscossa. Molte delle sue mosse politiche più recenti sono state lette alla luce di una ispirazione reaganiana: dall’apertura al mondo del business, prima fortemente ostracizzato dal suo entourage, alle ripetute lodi per il libero mercato, alla capacità di ricercare compromessi pragmatici con gli avversari. Persino il suo discorso a Tucson, dopo l’attentato contro Gabrielle Giffords, è stato lodato per la capacità di commuovere e di sopravanzare le divisioni partigiane, che era tipica del “Grande Comunicatore”.
Forse Obama non ripeterebbe in modo testuale la celebre frase di Reagan nel suo primo discorso di insediamento: “In questa crisi il governo non è la soluzione. E’ il problema”, ma sembra sempre più intuire quanto essa resti vera per la stragrande maggioranza degli americani, repubblicani o democratici che siano. Poco dopo la sua elezione, rispondendo alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se con la sua vittoria si fosse chiusa l’Era Reagan, Obama rispose: “Quello che Reagan ha inaugurato è un certo scetticismo sul fatto che il governo possa offrire la soluzione di ogni problema. Non credo che questo sia cambiato”. E parlando con un gruppo di giornalisti in Nevada, il Presidente ha poi ammesso: “Reagan ha cambiato la traiettoria della storia americana in un modo che né Nixon, né Clinton hanno fatto”. Una frase che il potente clan clintoniano a Washington non ha affatto apprezzato.
Molta più fatica farà Obama se vorrà emulare il suo predecessore non solo sui temi della ripresa economica e del libero mercato ma anche sul fronte della politica internazionale. I fatti di questi giorni in Egitto e le risposte confuse e contraddittorie dell’amministrazione mostrano che alla Casa Bianca non abita il “combattente per la libertà” che affrontò e sconfisse il comunismo relegandolo “nella cenere della storia” e pose fine alla Guerra Fredda con la vittoria indiscussa dell’America e della sua supremazia.
L’allora ambasciatore inglese negli Usa, Nicholas Enderson, pensò di far una critica a Reagan dicendo: “il Presidente crede che ci siano risposte semplici a problemi complessi”. In realtà Reagan trovava risposte semplici alle grandi sfide dei suoi tempi perché aveva chiari e solidi principi a cui ispirarsi. Prima ancora di Bush, è stato lui a dettare una “freedom agenda” al mondo, cominciando con l'”impero del male” sovietico. E non esitava ad applicare la più semplice delle risposte ai problemi internazionali: “punisci i tuoi nemici, premia i tuoi amici”. Qualcosa che Obama deve certamente ancora imparare se si guarda al disastro del Medio Oriente di questi ultimi mesi, dalle proteste democratiche in Iran, passando per il colpo di Stato in Libano, fino alle vicende tunisine ed egiziane.
Reagan non si preoccupò del sostegno internazionale o di elaborare qualche particolare toeria quando decise di bombardare la tenda di Gheddafi nel 1986, dopo che un terrorista libico aveva ucciso due soldati americani e ferito 200 civili in una discoteca in Germania. L’opinione pubblica planetaria insorse, quella europea in modo particolare, ma Reagan rispose dallo studio Ovale dicendo: “finchè sono io in carica nessun americano potrà essere attaccato ovunque nel mondo senza che i regimi responsabili ne paghino le conseguenze”. La conversione del leader libico verso il sostegno alla lotta al terrorismo nasce probabilmente da quel giorno. La famosa “mano tesa” di Obama non sembra aver sortito gli stessi effetti.
Forse l’ultima copertina del Time che mostra un fotomontaggio in cui Obama e Reagan si abbracciano sorridenti sotto il titolo “Why Obama loves Reagan” pecca verso l’eccesso, ma certamente il feeling tra due presidenti così diversi e ancora così lontani rende onore al centenario reaganiano e fa ammenda per quel sentimento di superiorità e di degnazione che la cultura liberal americana (ed europea) hanno sempre riservato a Ronald Reagan. Non è strano se a 100 anni dalla sua nascita ci si chieda se l’America viva ancora nell’Era Reagan. E’ strano semmai che sia toccato a Barack Obama confermarlo. Forse vuol solo dire che ci ricorderemo ancora di Reagan quando avremo dimenticato Obama.