La culla democratica
Su Il Foglio di oggi, la seconda puntata di una mia inchiesta sulle dinamiche geografiche e demografiche della politica statunitense, in vista delle prossime elezioni presidenziali del 2012. Questa volta si parla di Latinos. E non solo.
Per i democratici è più che una certezza. E’ un mito. Come i superpoteri dei Kennedy o i sogni di Martin Luther King. E poco importa se la realtà, a volte, osa entrare in rotta di collisione con il mito; se i Kennedy erano umani (troppo umani) o se MLK votava repubblicano. I dettagli non possono scalfire un mito costruito con attenzione. E l’ultimo mito dell’intelligencija liberal si chiama “demografia”.
Tutto inizia nel 2002, quando John B. Judis e Ruy Texeira scrivono “The Emerging Democratic Majority” (La nascente maggioranza democratica), facendo esplicitamente il verso al libro del 1960 (“The Emerging Republican Majority”) con cui Kevin Phillips aveva anticipato la riscossa del movimento conservatore Usa dopo decenni sudditanza culturale e politica. Judis è un giornalista-intellettuale che ha attraversato con scioltezza tutto l’iter professionale obbligatorio per la “classe creativa”: laureato in filosofia a Berkeley, nel 1969 fonda la rivista “Socialist Revolution” per poi sbarcare al “New York Times Magazine” e al “Washington Post”. Oggi staziona all’incrocio tra le due strade maestre su cui si è sempre mossa la sinistra americana nel dopoguerra, scrivendo sia per “The New Republic” (liberal) che per “The American Prospect” (progressive). Ruy Texeira, invece, è uno scienziato politico (ed attivista progressive) piuttosto noto, soprattutto nell’allora nascente mondo della comunicazione politica su Internet.Senior fellow al “Center for American Progress” (la risposta progressista alla “Heritage Foundation”), si interessa in particolar modo di trend demografici e dinamiche elettorali.
Il libro di Judis e Texeira esplode come una mina anti-uomo nel dibattito politico statunitense. Viene scelto come uno dei libri dell’anno dall’Economist e, soprattutto, diventa la “bibbia” di analisti e commentatori liberal e progressisti, impegnati nella dura campagna per le elezioni di midterm del 2002. La tesi di fondo di “The Emerging Democratic Majority” è semplice: i cambiamenti demografici nell’elettorato americano, primo tra tutti il numero crescente di cittadini di origine ispanica coinvolti nel processo elettorale, porteranno inevitabilmente il partito democratico verso uno status di maggioranza permanente; con il GOP costretto a sottomettersi, spostandosi a sinistra, o a soccombere definitivamente. Le magnifiche sorti (e progressive) della demografia a stelle e strisce conquistano immediatamente i cuori e le menti delle élite accademiche e giornalistiche.
Il primo banco di prova per la teoria di Judis e Texeira è però devastante. Alle elezioni di midterm, le prime dopo 9/11, la non-maggioranza repubblicana del 2000 diventa maggioranza al Senato ed espande il suo vantaggio alla Camera. Bush e la war on terror monopolizzano la campagna elettorale. E il risultato viene interpretato come un successo personale del presidente. Malgrado questo esordio poco felice, la teoria inizia a sedimentarsi nell’humus culturale della sinistra americana, fino a diventare un “talking point” classico della comunicazione democratica, anche perché contiene alcuni frammenti incontestabili di verità e molto materiale su cui riflettere.
L’analista conservatore Jay Cost, cresciuto sulla rive droite della blogosfera e oggi approdato al “Weekly Standard”, riassume così gli aspetti più “solidi” della teoria: “Si tratta di tre semplici constatazioni. Primo, il blocco ispanico sta crescendo numericamente nel paese. Secondo, i repubblicani devono ancora elaborare una strategia convincente per recuperare voti all’interno del blocco ispanico. Infine, prima o poi i repubblicani avranno bisogno dei voti ispanici per vincere le elezioni”. A differenza della maggioranza dei suoi colleghi, però, Cost non è affatto convinto che il trend demografico sottolineato da Judis e Texeira sia una legge ineluttabile scolpita nel granito della storia. E lo descrive come un “caso di studio per capire come un’argomentazione interessante possa traformarsi in un’ipotesi non falsificabile”.
L’obiezione principale di Cost è che Judis e Texeira – e le centinaia di analisti, attivisti e commentatori esegeti del “mito demografico” – siano troppo inclini ad esagerare la portata del trend che sta alle fondamenta della loro teoria. “Se i conservatori devono ancora realizzare pienamente la necessità di attirare i voti ispanici – dice Cost – i liberal sono troppo superficiali nel considerarli come già incassati. Questo eccesso di fiducia emerge chiaramente in quello che chiamo ‘l’errore categoriale della sinistra’. Gli analisti liberal raggruppano ispanici, afro-americani e asiatici in una sola categoria, quella del voto ‘non-bianco’, dando per scontato che si tratti di un blocco uniforme favorevole al partito democratico”. Il “trucco” è semplice, ma si scontra troppo spesso con la realtà.
Mentre gli elettori afro-americani costituiscono da decenni un segmento estremamente fedele della coalizione democratica (il rapporto Dem/Gop è costantemente intorno a 90/10, a prescindere dalle contingenze politiche), quelli ispanici sono piuttosto uno swing group che attualmente privilegia i democratici, ma che ha spesso dimostrato attenzione verso i candidati repubblicani che riescono a stabilire con loro una qualche forma di contatto. Cost fa l’esempio del Texas, in cui – dal 2004 ad oggi – i repubblicani hanno conquistato in media il 40 per cento dell’elettorato ispanico, riuscendo a mantenere una netta prevalenza malgrado l’elettorato “bianco” del Lone Star State si sia progressivamente ridotto al 67 per cento del totale. Gli afro-americani, poi, votano democratico in maniera assolutamente uniforme a livello geografico. I neri che vivono nel sud rurale hanno schemi di comportamento elettorale identici a quelli che vivono nelle grandi città del nord. Il comportamento degli elettori ispanici è molto più eterogeneo. Il GOP è piuttosto forte in alcune zone (non solo in Texas, ma anche in Florida, New Mexico e Colorado), mentre ha performance nettamente peggiori in California e in Nevada, o in grandi città come Chicago e New York.
Al momento, l’appeal repubblicano nei confronti della comunità di origine ispanica è fortemente limitato dalle dure prese di posizione del partito sull’immigrazione. Soprattutto dopo la legge voluta in Arizona contro gli immigrati illegali, a torto o a ragione il GOP è ormai largamente considerato come il partito dei “nativisti”, che vogliono impedire agli immigrati (in primo luogo messicani) di poter ottenere facilmente la cittadinanza degli Stati Uniti. Ma ci sono anche leader repubblicani che sembrano aver capito l’entità della posta in gioco. E non si tratta di personaggi di secondo piano. Appena una settimana fa, con un editoriale pubblicato dal “Miami Herald”, Jeb Bush (non a caso ex governatore della Florida) ha sostenuto la necessità che il movimento conservatore faccia uno sforzo di outreach nei confronti della comunità ispanica. “Gli ispanici – scrive il fratello di W. – sono uno dei gruppi etnici in maggiore espansione nel paese e continueranno a recitare un ruolo importante nei futuri appuntamenti elettorali e nel futuro della nazione. Le ultime elezioni sono un segnale che la comunità ispanica è disponibile ad ascoltare un messaggio di centrodestra. Il problema, ora, è capire se il centrodestra è disponibile ad ascoltare la comunità ispanica e a risvegliare il suo interesse”.
Parole che saranno certamente scivolate come miele nelle orecchie di Joel Kotkin, lo strenuo difensore di Suburbia che da anni contesta le politiche anti-immigrazione di una parte del movimento conservatore, colpevoli di spingere la comunità ispanica tra le braccia dei democratici. “La latinizzazione dell’America – scrive Kotkin – andrà avanti anche nel caso di una riduzione del ritmo dei flussi migratori. Nel 2000 gli ispanici rappresentavano appena il 12 per cento della popolazione statunitense. Nel 2050 saranno quasi il 25 per cento. E più crescerà la loro integrazione nella società, più aumenterà la loro forza politica. Dal 1990 ad oggi, il numero di ispanici iscritti nei registri elettorali è cresciuto da 4 a 10 milioni. I ‘bianchi’, il 60 per cento dei quali ha sostenuto candidati repubblicani alle elezioni di midterm del 2010, stanno lentamente ma inesorabilmente diminuendo. Nel 1960 erano il 90 per cento dell’elettorato, oggi sono il 75 per cento, nel 2050 potrebbero essere appena la metà”. Anche secondo Kotkin, però, i democratici sbagliano se pensano di potersi affidare in eterno alle simpatie dell’elettorato ispanico. Le dinamiche elettorali e demografiche non sono affatto immutabili. Fino alla vittoria della Proposition 187 nel 1994 (la legge referendaria anti-immigrazione poi abolita dal governatore democratico Gray Davis), la comunità ispanica in California votava al 40 per cento per il GOP, come oggi quella texana. Poi questa percentuale si è di fatto dimezzata. “Questo slittamento elettorale – scrive Kotkin – è ancora più significativo se si pensa che molte politiche democratiche, sia in campo sociale che economico, sono in netta contrapposizione rispetto al social conservatism e al desiderio di successo personale molto presenti nella comunità ispanica”.
Per “salvare” i repubblicani, in ogni caso, servono leader in grado di fare appello alla natura profonda dell’elettorato ispanico, superando quella percezione negativa che il GOP si è auto-inflitto negli ultimi decenni. Da passpartout democratico per la conquista di una “maggioranza permanente”, insomma, i Latinos potrebbero tornare ad essere decisivi nel campo di battaglia degli swing voters. Il senatore della Florida Marco Rubio, i governatori di Nevada e New Mexico, Brian Sandoval e Susan Martinez, ma anche i candidati ispanici del GOP che hanno vinto nello stato di Washington e in Wyoming potrebbero rappresentare i prodromi di questa inversione di tendenza. Ma serve soprattutto una strategia di lungo periodo elaborata a livello nazionale.
Il “mito demografico”, dunque, potrebbe trasformarsi da tragedia in opportunità per il GOP. E da certezza inossidabile in rischio per i democratici. Non è affatto scontato, naturalmente, che vada a finire proprio così. Ma non sarebbe la prima volta che accade qualcosa del genere. Dopo aver votato per Bill Clinton con un rapporto di 2 contro 1 nel 1996, l’88 per cento della comunità islamica ha votato per George W. Bush nel 2000. Otto anni dopo, Barack Obama è arrivato al 93 per cento. In questo caso, naturalmente, c’è stato un “punto di rottura” che ha provocato l’inversione di tendenza. Mentre è molto più significativo, proprio per l’assenza di uno “strappo” facilmente identificabile, l’esempio dei baby boomers. La generazione di chi è stato adolescente negli anni Sessanta è partita da posizioni molto spostate a sinistra, per poi marciare progressivamente verso la destra dello spettro ideologico statunitense. “Senza l’apporto dei boomers – scrive l’analista politico Larry J. Sabato – nel 1976 Jimmy Carter sarebbe stato sconfitto da Gerald Ford. Appena quattro anni più tardi, i boomers votarono in massa per Ronald Reagan. Politicamente, passata la soglia dei trent’anni, i boomers si sono trasformati nei loro genitori”. Questa, però, è tutta un’altra storia.
(2/continua)