Il neo-isolazionismo di Obama
Il discorso di Barack Obama a West Point, la storica accademia militare statunitense, è difficilmente sottovalutabile. Il 28 maggio, il presidente degli Stati Uniti, di fronte a ufficiali e allievi ufficiali, ha tracciato le linee della nuova politica estera della prima potenza militare mondiale, ribadendo la sua intenzione di ritirarsi dal conflitto ancora in corso in Afghanistan, ridurre gli interventi al minimo indispensabile per la lotta al terrorismo islamico e affidarsi agli alleati regionali per la soluzione delle controversie locali. Questa politica, neo-isolazionista, è perfettamente in linea con il drastico taglio del budget della Difesa e della complessiva riduzione delle forze armate, ad un livello mai così basso dal 1941. Sotto attacco dei Repubblicani, che considerano la sua politica troppo debole, enfatizza i “successi” ottenuti in Iran e in Ucraina.
Barack Obama, tuttavia, non riesce (né potrebbe riuscirci) a dimostrare l’entità di questi presunti successi. Se può infatti vantare un temporaneo disgelo con l’Iran, non può affatto parlare ancora di un successo in Ucraina. Anzi. La situazione appare più stabile da quando è stato eletto il nuovo presidente a Kiev, Petro Poroshenko, ma il Paese dell’Est europeo rimarrà sicuramente mutilato di una sua regione (la Crimea) e rischia di combattere una guerriglia ancora lunga nelle regioni dell’Est, nel Donbass, dove proprio ieri un elicottero dell’esercito regolare è stato abbattuto dai miliziani russi, con 14 morti da parte ucraina. I russi paiono aver abbandonato l’intenzione di invadere il Paese. Ma non è ancora chiaro a quali condizioni l’Ucraina potrà preservare l’integrità dei suoi confini, specialmente dopo che la Crimea è definitivamente persa e ormai pienamente integrata nella Federazione Russa. La mutilazione del territorio di uno Stato sovrano è un precedente molto grave nell’Europa orientale, dove minoranze russe e russofone sono presenti anche in Kazakhstan, in Moldavia (Transnistria), in Lettonia e in Estonia (un membro della Nato). L’occupazione della Crimea e la guerriglia nel Donbass sono una dimostrazione palese della debolezza del deterrente americano: sono saltate tutte le “linee rosse” precedentemente fissate, compreso il memorandum di Budapest (di cui gli Usa sono garanti assieme alla Gran Bretagna e alla stessa Russia) che avrebbe dovuto garantire l’intangibilità delle frontiere dell’Ucraina in cambio della sua denuclearizzazione. Si può dunque parlare di “successo”?
In Iran, il nuovo presidente Rouhani ha promosso una linea di disgelo e ha firmato un primo accordo per lo smantellamento di parte del programma nucleare. Ma anche qui è ancora impossibile parlare di successo, specie considerando che la nuova linea adottata da Teheran è più che interessata. Le sanzioni economiche americane ed europee, infatti, iniziavano a produrre i loro effetti dannosi sull’economia iraniana e la leadership di Teheran aveva tutto l’interesse a ridurre la pressione. È tuttavia ancora impossibile affermare che il cambio di rotta sia sincero e permanente, o se si tratti solo di una mossa temporanea volta ad alleggerire la pressione.
Sempre nel Medio Oriente, gli Usa non hanno saputo rispondere a due gravi crisi, in Siria e in Egitto. In Siria, Barack Obama si è imprudentemente lanciato nella dichiarazione di una “linea rossa”: no all’uso di armi chimiche, altrimenti scatta un intervento. Le armi chimiche sono state usate e l’intervento non è scattato. Ed è stato meglio così, perché altrimenti le forze statunitensi si sarebbero trovate nell’imbarazzante situazione di dover combattere contro Assad al fianco di milizie ribelli fortemente penetrate dai terroristi di Al Qaeda. Le stesse che stanno sterminando i cristiani e che stanno addestrando una nuova generazione di terroristi pronti a colpire anche in Occidente. In Egitto, le elezioni hanno dato la vittoria al generale Al Sisi, con un programma contrario all’islamizzazione del Paese. È una buona notizia per gli egiziani (specialmente per i cristiani d’Egitto), peccato però che Obama avesse imprudentemente dato il suo appoggio al presidente islamico Mohammed Morsi e ai Fratelli Musulmani. E lo abbia mantenuto anche dopo il rovesciamento del loro potere. Attualmente gli Usa si trovano nell’imbarazzante situazione di avere a che fare con un presidente egiziano, militarmente alleato, ma ormai col dente avvelenato (comprensibilmente avvelenato) nei loro confronti.
La strategia neo-isolazionista di Barack Obama è volta a “creare meno nemici”, come ha esplicitamente sottolineato il presidente. Ma paga? Un precedente recente lo si può trovare negli anni Settanta, dopo il fallimento dell’intervento nel Vietnam. È stato il periodo nero della politica estera americana: caduta di tutto il Sud Est asiatico sotto terribili dittature comuniste, conquista sovietica di Angola, Etiopia e Mozambico, nascita in Iran del nuovo regime islamico ostile agli Usa, affermazione di regimi marxisti in Nicaragua e Grenada, crescita del terrorismo in Europa e Sud America, invasione sovietica dell’Afghanistan. Un disastro su tutta la linea. Fu la dimostrazione che, senza una presenza forte degli Stati Uniti sulla scena mondiale, tutti i loro nemici (all’epoca erano soprattutto i sovietici) si diedero forza e avanzarono su tutta la linea. Forse Obama è convinto che oggi non vi siano più nemici pronti a sfruttare il vuoto lasciato dal suo ritiro. Oppure che i nemici esistano solo in reazione agli interventi Usa, come hanno sempre pensato e creduto i movimenti pacifisti americani. Ma l’avanzata russa in Europa sud-orientale, le pretese della Cina nel Pacifico e una Al Qaeda più forte che mai in Siria così come in Africa dovrebbero suggerirgli il contrario. Il terrorismo islamico, in particolare, si è sempre contraddistinto per aver fatto proseliti dopo ogni ritirata (o presunta tale) dei suoi nemici. Dopo il ritiro dall’Afghanistan delle forze multinazionali a guida Nato, potrebbe essere il diluvio.