Destra possibile/3. La replica di Edoardo Ferrarese
Leggendo il minisaggio di Andrea&Simone, concernente la vessata e plurifrequentata questione della destra che verrà, dopo un iniziale brivido polemico mi sono letteralmente perduto nella lacerante divergenza delle sue tesi di fondo. Il testo descrive varie corse di un moto oscillatorio in grado di coprire, con ipnotica disinvoltura, tutto lo spettro di risposta che congiunge il conservatorismo puro e semplice con un doroteismo talmente quieto, conformista e inoffensivo da risultare pressoché indistinguibile dal progressismo liberal, del quale sembra in effetti voler fornire un’immagine miniaturizzata e potabile “al centro”.
Il primo paragrafo, tra gli altri spunti d’apertura, illustra un bestiario del populismo contemporaneo: incontriamo Trump, la Le Pen e, per l’Italia, un Salvini tutto solo solingo. Accettando la sfida di questa pur sbrigativa catalogazione, rimanendo entro i patri confini, viene da chiedersi: e Grillo? E la sinistra antagonista? E Fratelli d’Italia? E tutti quei bei pezzi del Pd, di FI ma anche di centro moderato, intelligente e riflessivo usi a incolpare la Merkel financo del maltempo? Non pervenuti; del resto il segretario leghista deve poter incarnare a pieno titolo il prototipo del destrorso imbestialito, mica possiamo perderci in faticosi allargamenti del campo visivo. E poi, se esulassimo dall’autoflagellazione, rischieremmo di rovinarci la reputazione di cani sciolti. Un’approssimazione di analogo taglio si incontra poco dopo, allorché si asserisce che Salvini può comodamente risparmiarsi il fastidio di elaborare un pensiero compiuto, non essendo la Lega davvero interessata ad amministrare nemmeno un condominio. Peccato che sia al governo di due importanti regioni del Nord con esponenti propri, il Carroccio, e che partecipi direttamente all’amministrazione di una terza. Il Fronte Nazionale francese non può dire lo stesso, giusto per rimanere in scia di esemplificazione, né possono farlo l’Ukip di Farage o il vituperato GOP dell’impresentabile conio prossimo venturo. Il sommario breve del “qui e ora” lo compilo senza dimenticare otto anni e mezzo di governo nell’ultimo quindicennio (l’asse FI-Lega non è esattamente una novità dell’ultima ora).
Proseguendo nella lettura arrivano numerose altre piacevolezze: i “profughi” che rappresentano la totalità del problema migratorio e sono pochi, solo centomila; la Fornero che è uno splendore su tutta la linea; i comunisti che non esistono e che fanno sorridere solo a sentirli ancora nominare; il matrimonio omosessuale che trova resistenza solo in sparuti fanalini di coda “tradizionalisti”. Naturalmente, se pensi che l’equivalenza tra profugo e clandestino sia una cialtronata infame; che i flussi migratori annui, nell’ultimo triennio, abbiano spiccato il volo verso numeri insostenibili e ingiustificabili; che mettere interamente a carico della popolazione attiva l’abbattimento della curva previdenziale, per quanto con ogni probabilità inevitabile, sia iniquo; che il marxismo sia morto di vecchiaia, certo, ma che i suoi figli e nipoti godano di ottima salute; che il diritto di famiglia debba trattare situazioni simili in modo simile e situazioni diverse in modo diverso – se pensi tutto questo, dicevo, bene che vada ti meriti un sorrisetto condiscendente. La psicodinamica del migliorismo di centrodestra mostra spesso analogie per niente simpatiche con la supponenza di sinistra – specie per quanto riguarda la mancanza di senso della misura nel ritenersi titolati a usare un atteggiamento del genere verso qualsivoglia forma di dissenso.
Parallelamente agli ammiccamenti al commune verbum di cui sopra, d’altro canto, si estraggono interi paragrafi vicini alla perfezione. Il morbo della correttezza politica che ormai infesta irreversibilmente anche la metà conservatrice del cielo; l’Islam “cosiddetto moderato” come “creazione psichedelica dell’intellighenzia occidentale”; la tradizione concepita non solo e non tanto come “passata innovazione di successo”, ma come strategia semplificata e consolidata di comunicazione morale, nel solco della quale impostare un cambiamento continuo, graduale e senza strappi. Sembra quasi che i due autori si siano divisi il lavoro di stesura per blocchi di contenuto indipendenti. Se questa piccola congettura si riducesse a un’irrilevante nota di colore non la introdurrei nemmeno nel discorso, ma nello specifico mi pare la spia di un dissidio latente fra “anime” irriducibili a una sintesi piena. Siccome qui il mezzo avrebbe dovuto coincidere col messaggio, la trovo una discrasia non banale da sottolineare.
L’amarezza persiste a distanza di giorni, perché le intuizioni su cui costruire analisi proficue – ripeto – non mancano affatto. Trovo corretta la diagnosi di divorzio fra élite e strato popolare, ovvero del centro dalla destra, come epifenomeno della progressiva sparizione del ceto medio. Non meno condivisibile è il rinnovato invito a marciare uniti sulla strada del partito-coalizione, più che della coalizione di partiti.
Casomai occorre fare attenzione alle prognosi. Il primo aspetto (la proletarizzazione del ceto medio) riguarda una tendenza comune a tutte le economie di industrializzazione matura, ed è un portato della globalizzazione. Dopo averne constatato l’invincibilità da parte degli “stabilizzatori automatici” congegnati dal vecchio stato assistenziale, il meno che si possa dire è che nemmeno i grandi aggregati sovranazionali si sono dimostrati meglio attrezzati nell’opera di contenimento della marea montante. È in atto un processo di bilanciamento del benessere su scala globale del quale noi liberisti meniamo giustamente vanto, malgrado ci dimentichiamo spesso che l’equazione delle magnifiche sorti ha due membri. Cresce l’uno e cala l’altro, in relativo, per quanto i totali in gioco possano aumentare nel tempo o comunque non essere mai “superfissi”.
In questo quadro, contraddistinto da margini di manovra ridottissimi a tutti i livelli di governo, diffusa domanda di protezione e sicurezza sociale, obbligo di gestire i conti pubblici senza scassarne definitivamente i fondamentali, reviviscenza del qualunquismo maligno per cui esistono decisioni oggettivamente “buone” al di là della dialettica destra/sinistra e – non ultimo – tanto, tantissimo culto della personalità a prescindere dai programmi, cosa rimane alla destra da elaborare? E in nome di quale elettorato potenziale?
La public choice, in generale, e l’attuale contesto socio-economico, in particolare, non consentono a nessuno di dare attuazione a un pacchetto di iniziative politiche compiutamente improntato a logiche di mercato, nell’ambito del quale lo stato e le regole siano al servizio della società, e non viceversa, su tutti i fronti. Chi promette di tagliare la spesa pubblica in assoluto o mente o finisce annientato, tant’è che nemmeno i (giustamente) osannati Reagan&Thatcher – ciascuno con le sue differenze e le sue specificità – lo fecero mai davvero. Tagliare le tasse in deficit, ora come ora, è un azzardo che rasenta l’irresponsabilità. Le riforme del sistema previdenziale sono come le manutenzioni delle coperture, nel senso che si fanno col bel tempo e non durante le burrasche; lo davo dolorosamente per sottinteso qualche capoverso fa.
Quali potrebbero essere gli indirizzi programmatici rimasti concretamente disponibili per un progetto politico, adesso e nel medio termine? Io mi concentrerei su poche idee, chiare e distinte, propedeutiche a gettare le basi di proposte più aggressivamente sviluppiste se e quando andrà meglio. Quanto a sicurezza e immigrazione, suggerisco di ragionare sull’applicabilità al Mediterraneo del modello australiano, magari contando sull’interesse della Tunisia a fornirci dietro congruo corrispettivo una sponda affidabile. Tempo addietro potevamo contare sugli accordi bilaterali con la Libia, ma com’è andata a finire lo sappiamo. Vorrei si notasse il riferimento tratto dall’anglosfera: saranno dei feroci razzisti anche in Canada, negli Stati Uniti, oppure appunto in Australia? Eppure, da quelle parti, l’immigrazione è regolata in modo molto severo; basta anche solo un’occhiata ai reality aeroportuali per rendersene conto. Lo sviluppo economico, a fronte di una leva fiscale bloccata dalla crisi di gettito e di cartucce monetarie già tutte – forse temerariamente – sparate, può puntare sulla sburocratizzazione e sulla deregolamentazione, credendo di più nello strumento della segnalazione autocertificata, nell’utilizzo di modulistica agevolata e, in generale, nella promulgazione di testi unici realmente forieri di semplificazione in fase di adempimento e di controllo. Benefici da riservare non solo a questo o quel segmento di consenso nell’urna, ma a tutti coloro i quali siano disposti a sacrificare la certezza in carta bollata (che tanto non esiste mai realmente) in cambio di maggiore praticità e competitività. Idem dicasi per le liberalizzazioni, da adoperare non più come castigo elettorale ai kulaki del ceto professionale, ma come vero motore di crescita a tutto campo. Un esempio tra le migliaia possibili: la consulenza finanziaria indipendente. Avremmo bisogno come il pane di un private banking in grado di spezzare le catene del bancocentrismo all’italiana, che col “neoliberismo” c’entra tanto quanto il sottoscritto con X-Factor; non voglio nemmeno alludere alla cronaca recente, perché si tratta di un’esigenza nota da lustri.
Nonostante si tratti di un manifesto tutto sommato minimalista, la pur ridotta panoramica così delineata rimane un libro dei sogni, se il primato della politica non viene affermato mediante la volontà e la responsabilità di presa sugli apparati non elettivi dello stato. Senza un minimo di spoil system, o perlomeno l’estensione della licenziabilità da Jobs Act al pubblico impiego, non c’è “contratto con l’Italia” che tenga. E non mi dilungo oltre sul rapporto della classe politica con la magistratura requirente, perché tra di noi siamo già edotti in materia.
Un intervento deciso solo su due settori come il funzionariato e le procure presuppone – o avrebbe dovuto presupporre, quand’era il nostro turno – compattezza, unità d’intenti e fiducia, fiducia, estrema fiducia nel rapporto tra la società civile e i suoi rappresentanti. Verrebbe da ridere, se non ci fosse di che digrignare i denti ripensando all’azione frenante a suo tempo esercitata da alleati riottosi, opportunisti, infidi – e ove possibile, ogni volta, riconfermati in coalizione da chi avrebbe dovuto preferire il rischio di perdere le elezioni, a quello di perdere la bussola.
Agli amici Andrea e Simone rivolgo infine un paio di domande retoriche. Davanti a un Renzi che si rivela a ogni piè sospinto più epigono di De Mita che di Cameron, lasciando magre speranze agli incauti che scommisero su quel cavallo nella speranza di riesumare velocemente l’ectoplasma del “liberismo di sinistra”, non sarebbe opportuno stringersi a coorte attorno a dei minimi comuni denominatori? E, soprattutto, ora che una nuova generazione di amministratori popolari e conservatori può sostituirsi e gerarchini e gerarchetti ormai giunti al fermo macchine, non sarebbe il caso di esserci, di essere proprio “lì”, quando il trapasso, viavaddio, si compierà una volta per tutte?
L’identità di molte vedute, ne sono sicuro, ci gratifica almeno nel dare la stessa risposta ai due quesiti.
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