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Macchine del fango
Non si può trasformare il caso Formigli contro Fiat in una battaglia per la libertà di stampa e di espressione. Non ci sono i margini. Né questi margini si creano se a mobilitarsi in favore della santa causa è un giornalista di grosso calibro come Enrico Mentana. «Sarebbe giusto che al Lingotto, finché la sede della Fiat resta lì, si mettessero una mano sulla coscienza, e facessero un gesto adeguato di fair play», scandiva ieri il direttore del Tg La7 nel suo editoriale. Un intervento ripreso su Facebook, dove è subito diventato un cult. Su Twitter sono persino nati gli hashtag #fiatripensaci e #iostoconformigli.
Premesso che siamo in un paese libero, e ognuno ha facoltà di stare con chi più gli aggrada, in tutte queste levate di scudi si omette (e non senza malizia, viene da pensare) che è stata una sentenza del Tribunale di Torino a condannare al risarcimento il giornalista e la Rai. Il provvedimento reca in calce la firma del giudice Maura Sabbione, non quella di Sergio Marchionne o Luca Cordero di Montezemolo. Se davvero il conquibus richiesto dalla casa automobilistica torinese fosse stato esoso, il tribunale avrebbe avuto facoltà di abbassarlo, così come sovente accade. Prova ne sia che la richiesta iniziale di Fiat era di 20 milioni, quattro volte tanto.
Vero, cinque milioni sono una cifrona. Alzi la mano chi li ha mai visti tutti insieme, cinque milioni. Ma quale danno economico può aver provocato il servizio denigratorio ai danni del prodotto trasmesso durante uno dei programmi di informazione più seguito della tv nazionale? Quanti telespettatori possono essere stati condizionati negativamente come potenziali acquirenti della vettura, di un’auto dello stesso marchio o (perché no?) dello stesso gruppo? Quanto la loro opinione può aver condizionato quella dei loro amici o parenti, o l’opinione di coloro che il servizio l’hanno googlato, visto e condiviso su Youtube, condiviso su Facebook, twittato e ritwittato? Perché il diritto di un’azienda alla tutela della propria immagine e dei propri interessi economici dovrebbe valere meno del diritto di un giornalista a realizzare un servizio riconosciuto in sede giudiziale come fazioso e denigratorio? Il fatto che il giornalista in questione possa risultare simpatico, mentre l’azienda non lo è, non è una risposta sufficiente. Sarebbe troppo comodo. Se si fa una cazzata e si viene richiamati alle proprie responsabilità, non si grida alla censura sapendo che le reazioni di pancia del populismo da social network ci metteranno molto poco a trasformare chi sbaglia in un martire.
Mentana accusa la Fiat di omaggiare giornalisti con le proprie vetture a scopo pubblicitario, in modo da potersene ingraziare i servizi. E ciò, secondo lui, annesso al fatto che il gruppo è proprietario a vario titolo di alcune delle più importanti testate nazionali, sarebbe di per sé sufficiente a suggerirgli di lasciare in pace i giornalisti ritenuti “scomodi”. La prassi di fornire i propri prodotti alla stampa, o a personaggi famosi in genere, o a soggetti in grado di influenzare positivamente i potenziali clienti, o addirittura di regalare i prodotti alle produzioni cinematografiche affinché queste le infilino qua e là nelle loro pellicole di maggior successo non l’ha certo inventata Fiat. Né di sicuro é la sola a praticarla. Limitandosi al mondo delle quattro ruote, ci sono fior fior di case automobilistiche straniere che lo fanno come e anche più di Fiat, anche solo per il fatto di poter godere di bilanci più consistenti. È curioso però che nessuno verghi mai nei loro confronti un editoriale di critica. Non perché non ce ne sia il motivo (il modello flop capita a tutti, anche ai migliori), ma piuttosto perché la testata teme di perderne le laute prebende pubblicitarie. Questo sì che è «limitare la libertà di espressione». Non si tratta dunque di “fare la verginella”, così come scrive Mentana, ma di tutelare la propria immagine lesa sconsideratamente da chi giornalista automobilistico si è improvvisato da un giorno all’altro. Se modelli come la Duna o la Multipla sono entrati a far parte del pantheon delle barzellette, è un problema di Fiat e del suo ufficio stampa, che magari dovrà lavorare il doppio per convincere la clientela che quei tempi sono finiti. Questo però non autorizza però un giornalista a confezionare servizi diffamatori, magari finalizzati a colpire l’azienda più per le sue politiche sul lavoro, che la testata non condivide, piuttosto che per l’effettiva mediocrità dei suoi prodotti.
Ma è sbagliato soprattutto far passare l’idea che essere un giornalista sia una sorta di “tana libera tutti” per scrivere o raccontare qualunque cosa, senza doverne rispondere mai. Se il servizio non fosse stato volutamente denigratorio, così come stabilito dal tribunale torinese, non sarebbe accaduto nulla. Sono decine le testate di settore che sfornano pagelle da bocciatura sonora contro questa o quell’automobile, e non per questo vengono querelate. Perché lo fanno con professionalità. Il giornalista ha la piena responsabilità di ciò che scrive, e la deontologia gli impone trasparenza e perizia nel suo lavoro. Anche perché il suo lavoro gli dà il potere di causare danni enormi, se svolto male. Se il medico imperito causa il male paziente, paga. È non importa se il paziente è un povero senzatetto affamato oppure un facoltoso nipote di Rockefeller. Giornalista ne più ne meno, considerati i danni che cattivo lavoro può arrecare. Non c’è editoriale che tenga. Nemmeno quelli del Gandalf del giornalismo italiano.