Internet è di sinistra?
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“Internet è di sinistra”. Non so a voi, ma è ormai più di un decennio che a me tocca ascoltare questa favoletta. Con tutti gli aneddoti – più o meno inventati – di contorno. Dalla campagna elettorale di Howard Dean nel 2004, al movimento “Occupy Wall Street” con i suoi smartphone di ultima generazione, passando da Barack Obama e i miliardi di dollari raccolti grazie alle donazioni individuali sul web. Da Beppe Grillo e il suo esercito di cyber-attivisti alle “smart mob” che hanno fatto fuori Letizia Moratti sui social network, passando per i mirabili esempi di satira che prendono in giro Silvio Berlusconi su YouTube. La “vulgata” sull’utilizzo politico della Rete, almeno in Italia, ha sempre dato per scontato che la sinistra (in tutte le sue forme) possa godere di una sorta di superiorità strutturale rispetto agli avversari.
L’impianto teorico a sostegno di questa convinzione, per la verità, è sempre stato piuttosto debole. Anche perché la storia stessa della rivoluzione digitale – e soprattutto delle sue origini – è piena di casi che dimostrano l’esatto contrario. Tra i primi pensatori che si sono occupati seriamente di questi temi, ci sono futurologi come Alvin Toffler e George Gilder che appartengono, rispettivamente, ai due filoni classici della destra americana: quello libertarian e quello conservatore. Tradotti raramente (e letti quasi mai) in Italia, Toffler e Gilder hanno anticipato di anni la rivoluzione della microelettronica e della telematica. Ma gli stessi imprenditori che, in prima persona, hanno appiccato i fuochi di questa rivoluzione nella Silicon Valley sono lontanissimi dagli stilemi dell’immaginario collettivo di qualsiasi sinistra, come dimostra la recente gaffe di Nichi Vendola su Steve Jobs. E come Jobs, anche Bill Gates di Microsoft, Jack Tramiel di Commodore, Clive Sinclair (nominato baronetto da Margaret Thatcher) in Europa, sono tutti capitani d’industria che hanno creato dal nulla il mercato dell’informatica personale. Senza la visione, la pervicacia e l’ego smisurato di questi malvagi capitalisti, il web – come lo conosciamo oggi – non avrebbe alcuna ragione d’esistere.
Capiamoci bene: come è ridicolo affermare che Internet, di per sé, è “di sinistra”, sarebbe altrettanto ridicolo affermare il contrario. Internet, come tutti gli strumenti di comunicazione creati – intenzionalmente o meno – dall’uomo, è neutrale rispetto al messaggio che veicola. E’ vero però che la sua struttura profonda presenta impressionanti analogie con qualcosa che la sinistra, soprattutto in Europa, odia con tutte le sue forze: il libero mercato. Come scriveva qualche anno fa il sociologo Lorenzo Infantino nella prefazione all’edizione italiana di “Liberalismo” di August von Hayek (ed. Rubettino), «le dinamiche di scambio e di interazione, se lasciate libere, tendono a migliorare la posizione di ciascun contraente». E gli individui, quando sono liberi di perseguire i loro interessi personali, assecondano – in modo più o meno diretto – gli scopi e le esigenze di una molteplicità di altri individui. Per questo motivo il libero mercato è l’unica struttura in grado di permettere alle conoscenze possedute da pochi di raggiungere i molti. E non è un caso che questa struttura si sia evoluta spontaneamente, senza essere. Von Hayek, per descrivere il fenomeno, utilizza il termine “catallassi”, «che deriva dal verbo greco katallattein (o katallassein), che significa non solo “scambiare”, ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare da nemici, amici”».
Naturalmente il pensatore della Scuola Austriaca si riferiva al mercato e non alla “blogosfera” o ai social network, ma le analogie sono molte e immediatamente evidenti. Nel mercato (e nella maggior parte dei sistemi complessi), ogni individuo tende a spostarsi verso livelli più alti di utilità marginale producendo spesso, in modo del tutto non-intenzionale, un bene collettivo. Nei network digitali, questa interazione spontanea tra individui diffonde alla velocità della luce (anzi, della fibra ottica) una quantità tale di informazioni ed idee che nessuna organizzazione giornalistica o politica tradizionale – per quanto mastodontica – potrebbe mai sognarsi di produrre. In entrambi i casi, a guadagnarci è soprattutto il cittadino.
Questa origine “non sinistra” di Internet, naturalmente, non implica che i partiti o i movimenti politici più attenti alla difesa del libero mercato siano destinati ad utilizzare la Rete meglio dei loro avversari. Al di là dell’Atlantico ci sono molti casi in cui questo è accaduto. Il candidato democratico John Kerry, nel 2004, ha perso definitivamente ogni possibilità di sconfiggere George W. Bush quando i blogger della destra americana hanno tenuto vive per oltre un mese – nel silenzio assoluto dei mainstream media – le accuse di un gruppo di veterani sul suo passato in Vietnam. Sempre nello stesso ciclo elettorale, l’anchorman della Cbs Dan Rather è stato lapidato sulla pubblica piazza digitale, e costretto al pensionamento anticipato, dopo aver tentato di influenzare le elezioni a poche settimane dal voto con un servizio televisivo basato su documenti grossolanamente contraffatti. Più recentemente, il fenomeno dei Tea Party, che ha anticipato e alimentato la profonda crisi politica che ancora oggi affligge il presidente Obama, è nato e si è sviluppato quasi interamente online. E non mancano personaggi politici che, grazie alla Rete, compensano brillantemente la scarsa visibilità ottenuta sui media tradizionali (il candidato alle primarie repubblicane Ron Paul è uno degli esempi più notevole). Anche nel Regno Unito, la strategia di comunicazione dei Tories sfrutta sistematicamente le potenzialità di Internet, spesso con creatività ed efficienza.
In Italia, purtroppo, le cose stanno diversamente. E l’argomento merita certamente un’analisi approfondita in altra sede. Eppure il centrodestra, in questo settore, era addirittura partito in vantaggio. Tocqueville.it, l’aggregatore che coordino da oltre 6 anni, raccoglie ormai quasi tremila tra blog e siti che si ispirano alle idee di «liberali, conservatori, neoconservatori, riformatori e moderati». Un partito unico virtuale del centrodestra, insomma, nato assai prima del PdL e che probabilmente sopravviverà ad esso. Un luogo d’incontro e di discussione per tutte le anime di quell’Italia con non vuole sentirsi ostaggio della prepotenza culturale e politica della sinistra. Una piazza digitale in cui convivono ed interagiscono semplici cittadini, attivisti, uomini politici, giornalisti, intellettuali e ministri. A parte qualche eccezione, però, la sua esistenza è stata praticamente ignorata proprio dai partiti e dai media più “affini”. A sinistra se ne è parlato e scritto molto. La sinistra ha provato (senza troppo successo) ad imitarne il modello. A destra, tranne che in qualche caso, soltanto silenzio.
Dal 2005 ad oggi, su Internet, sono trascorse molte ere geologiche. E Tocqueville.it è alla vigilia di una profonda trasformazione, che adeguerà questo strumento ad un mondo in cui non esistono più soltanto siti e blog personali ma che ha visto il prepotente emergere dei social network. Chi si lamenta di come Internet in Italia sia soltanto “di sinistra” farebbe bene a non lasciarsi sfuggire almeno questa occasione. La prossima volta potrebbe essere troppo tardi.