Peggio delle quote rosa
Puntuale come le allergie alle prime avvisaglie di primavera, con l’approssimarsi del voto si ripresenta la questione della rappresentanza femminile. Una giornalista del Sole24Ore, da tempo impegnata sui temi di genere, in vista delle amministrative di domenica ha lanciato in Rete lo slogan “Votiamo le donne”: e la girandola già vista con le quote rosa è ripartita, solo stavolta prendendola dalla parte opposta (quella della scelta a valle, invece che della candidatura a monte). Nell’uno e nell’altro caso, la sostanza non cambia – adottare un correttivo, percepito come indispensabile di fronte a un’originaria stortura -; ma mentre l’idea di riservare una percentuale minima di posti in lista alle donne rispondeva all’esigenza di assicurare parità di opportunità, l’obiettivo qui è la parità dei risultati. Ancora peggio, se possibile.
Vale la pena di aggiungere qualche considerazione a quella dei tanti (e delle tante, non si creda) che hanno manifestato perplessità di fronte a questa proposta. In primis, l’idea che ai vertici (della politica, della finanza, delle aziende, poco importa) sia auspicabile una presenza di uomini e di donne in pari numero cela una nozione piuttosto astratta di “normalità”: che non sia questo il criterio da adottare, lo mostra l’insensatezza delle classifiche sulle pari opportunità e regolarmente sfornate ogni anno sui paesi in cui le donne vivono meglio – classifiche che vedono il nostro paese superato da nazioni in cui le bambine vengono sterminate alla nascita, o in cui le donne sono costrette a lavorare (ecco il perché del maggior tasso di occupazione femminile) da mariti perennemente alcoolizzati.
Ancora, il fatto che esperienze come quelle delle quote rosa siano già state inaugurate da tempo fuori dai nostri confini, a mio parere, non è di per sé indicativo della loro effettiva bontà: potremmo discutere per ore, forse giorni, dei criteri da adottare per giudicare nel suo insieme una società in cui le donne sono al comando in almeno il 40% delle posizioni chiave, rispetto a una in cui ciò non accada, e la difficoltà di venirne a capo è almeno pari a quella che si incontra nel tentativo di dare una definizione condivisa di “felicità”. In terzo luogo, la proposta di votare comunque le donne, per quanto lo mettesse verosimilmente in conto nel suo spirito provocatorio, oblitera completamente il problema del reclutamento: ciò che suona strano, pensando che tra chi l’ha entusiasticamente sostenuta si trovano alcuni dei più violenti dileggiatori delle igieniste dentali assurte agli scranni di consigliere regionali. Eppure, non credo che se trovassero in lista la Minetti si spingerebbero oggi a votarla.
Infine, e soprattutto lo spirito che ispira la proposta, fatta alle donne, di votare le donne è verosimilmente quello di garantire alla componente femminile della popolazione e dell’elettorato una voce in capitolo quando si tratta di decidere di questioni che le riguardano. Con le donne ai posti di comando, ci saranno decisioni favorevoli alle donne, che si tratti di lavoro, famiglia, sicurezza, salute: solo se ad affrontare questi temi ci sarà una delegazione di donne, le donne tutte ne beneficeranno. Un approccio che adombra una concezione “analogica” della politica: la stessa che, per tutte le minoranze, sostiene che il miglioramento delle loro condizioni, in una democrazia indiretta, sia legato alla loro possibilità di intervento diretto nel merito. La ragione per la quale in politica ritengo fondamentalmente sbagliato un approccio ispirato alla parità – tanto di opportunità, quanto, ancor peggio, di risultati – è legata proprio a alla natura della rappresentanza politica: che è un mestiere, e uno dei più importanti e delicati, che deve essere preso in carico da persone capaci. Persone che conoscono e comprendono le istanze di gruppi di interesse, non necessariamente omogenei rispetto alle caratteristiche dei loro rappresentanti, e sono in grado di farsene carico validamente.
Chi meglio rappresenta i neri non deve necessariamente essere nero; chi meglio rappresenta i pensionati non deve necessariamente essere un pensionato; chi meglio rappresenta le donne non necessariamente è una donna. Una prova evidente se n’è avuta di recente, in occasione della (chiamiamola così) riforma del lavoro: non mi riferisco al fatto che la ministra Fornero, dopo qualche dichiarazione tanto universalistica quanto astratta sui diritti delle madri lavoratrici, abbia di fatto conservato lo status quo su una serie di questioni scottanti (come il tema delle dimissioni firmate in bianco dalle neomadri), ma al fatto che in tema di conciliazione tra famiglia e lavoro non abbia saputo estrarre di meglio dal cappello che tre risicati giorni di congedo parentale per i padri, e qualche spicciolo per le baby sitter, in sostituzione del tempo che ogni madre è intitolata a trascorrere con il figlio neonato. E questo mentre altre due figure di spicco dell’arena politica almeno due, parlavano di riconoscimento del diritto al part-time per i genitori lavoratori, di revisione della disciplina dei congedi, di cura dei figli anche durante l’adolescenza – le proposte migliori sinora avanzate. Venute, ça va sans dire, dalla bocca di due politici uomini: Maurizio Sacconi e Andrea Riccardi.