Gaza, i perché di una guerra infinita
La guerra di Gaza pare ormai un fenomeno ciclico, quasi una barbara consuetudine. Oggi siamo nel 2014, ma pare di rivivere le stesse situazioni (e fare e sentire gli stessi discorsi) del 2012 e prima ancora del 2009. Ogni due o tre anni assistiamo a: intensificazione dei lanci di razzi di Hamas, provocazioni dirette contro civili o militari israeliani (in questo caso il rapimento di tre ragazzini ebrei che nulla avevano a che fare con l’esercito), risposta aerea israeliana, intervento di terra dell’esercito contro Gaza, conta delle vittime collaterali, mobilitazione umanitaria internazionale in difesa dei civili palestinesi, mobilitazione dei musulmani d’Europa in difesa della Palestina, mobilitazione della diplomazia occidentale per strappare un cessate-il-fuoco il prima possibile e a qualunque condizione, la ripresa del dialogo fra sordi fra Israele e Autorità Palestinese. Dopo due o tre anni, il conflitto scoppia di nuovo. E il copione si ripete.
Come mai questo conflitto è divenuto ciclico? Vi sono alcuni problemi molto evidenti, che sono cronici. Sono talmente evidenti che nessun governo occidentale ha pensato di affrontarli. Anche perché la soluzione è molto dolorosa.
Il primo problema è Hamas, con il suo famigerato statuto. L’articolo 7 recita: «Benché […] molti ostacoli siano stati posti di fronte ai combattenti da coloro che si muovono agli ordini del sionismo così da rendere talora impossibile il perseguimento del jihad, il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta – le benedizioni e la salvezza di Allah siano su di Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo’”».
L’articolo 11, invece, recita: «Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un bene inalienabile (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio? Questa è la regola nella legge islamica (shari’a), e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani la hanno consacrata per tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio».
Il combinato disposto di questi due articoli dovrebbe far capire a chiunque che Hamas: ritiene che uccidere gli ebrei sia un’azione benedetta da Dio, ritiene che qualunque processo di pace sia da condannare. Hamas non conosce pace, al massimo tregua. Non intende accettare una “road map” o una soluzione “due popoli in due Stati”, ma vuole l’eliminazione fisica totale dello Stato ebraico in Medio Oriente. I suoi capi, i suoi militanti e i suoi simpatizzanti in Europa (e ce ne sono più di quanto non si creda, anche fra non musulmani) non ne fanno mistero. Ogni volta che Israele distrugge le basi militari a Gaza, con l’aviazione o l’esercito di terra, Hamas accetta una tregua, prende il tempo necessario a ricostruirsi un arsenale e poi rilancia la sua offensiva totale contro gli ebrei.
La fine di questo ciclo potrebbe giungere solo con una radicale riforma dello statuto di Hamas. Ma questa soluzione appare abbastanza utopistica: Hamas è nata contro l’Olp e in particolare contro Al Fatah, quando il movimento armato di Arafat aveva accettato gli accordi di Oslo. Proprio la sua intransigenza nei confronti di Israele e la sua fama di partito incorruttibile l’hanno reso il movimento più votato dai palestinesi, a Gaza così come in Cisgiordania. E d’altra parte non potrebbe essere altrimenti: almeno tre generazioni di palestinesi sono state educate a cancellare Israele dalla carta geografica, e continuano ad esserlo. I palestinesi votano coerentemente con quel che hanno imparato, sin da bambini. Se Hamas accettasse la coesistenza pacifica con Israele, se cessasse del tutto la guerra, dalla sua costola nascerebbe una nuova Hamas ancora più radicale. Oppure prenderebbero il sopravvento altri movimenti in competizione con il partito islamico palestinese, come la Jihad Islamica o le stesse cellule qaediste che iniziano a crescere a Gaza e nel Sinai.
L’alternativa all’impossibilità di riforma di Hamas è il suo isolamento. Ma abbiamo visto, anche qui, i risultati: isolato, per forza di cose, da Assad (alle prese con la sua guerra interna) e dall’Egitto (dopo il ritorno dei militari al potere), Hamas ha reagito proprio lanciando la sua nuova offensiva contro Israele, per far capire a tutti che può destabilizzare la regione come e quando vuole, ricattare i suoi sponsor. Mira a richiamare la loro attenzione, spingerli nell’angolo in una situazione di “o con me o contro di me”, dove “contro di me”, per la piazza araba, vuole dire: “con Israele”, la peggiore accusa che un leader arabo possa sentire.
L’unica alternativa che resta è proprio la più dolorosa: l’annientamento militare e politico di Hamas, incluso l’arresto (o l’uccisione) di tutta la sua leadership politica. Questo processo è già in corso. Si tratterebbe solo di lasciare che gli israeliani portino a termine il lavoro. Ma non è affatto semplice, perché la comunità internazionale ha sempre fermato Israele prima che raggiungesse i suoi obiettivi e lo sta facendo ancora. Dopo che gli Usa hanno premuto per la pace, dopo che la Francia si è offerta come arbitro, ieri è toccato all’Onu, per bocca di Ban Ki-moon, premere per una pace da raggiungere il prima possibile, a qualunque condizione. La diplomazia internazionale, se dovesse aver successo, otterrebbe una tregua. Al massimo nel 2016 o nel 2017, la guerra scoppierebbe di nuovo. Probabilmente anche prima del 2016. L’errore commesso dalla diplomazia internazionale è condizionato dalla grande mobilitazione dell’opinione pubblica, mediorientale e occidentale. Che la piazza araba e musulmana si mobiliti non è una novità, né dovrebbe sorprendere: con qualunque governo abbia a che fare, monarchico, laico-militare o islamico, la popolazione araba ha sempre visto Israele come il corpo estraneo da eliminare, dal 1948 ad oggi. È la piazza occidentale, semmai, la più difficile da capire. Dal 1967 alla fine della guerra fredda, la sinistra europea si mobilitava al fianco dei regimi e movimenti arabi alleati dell’Urss. Dopo la guerra fredda, invece, sono subentrati altri fattori. Elencarli tutti richiederebbe troppo spazio.
Basti constatare, però, che a coalizzarsi contro Israele sono soprattutto cattolici tradizionalisti, neofascisti, post-comunisti. Tutti questi settori dell’opinione pubblica (minoritari) sono contrari, per motivi differenti, all’esistenza stessa dello Stato di Israele. Sono apertamente antisemiti, o “anti-sionisti”, direttamente o indirettamente complici di Hamas e di quegli estremisti musulmani (sempre più numerosi) che attaccano le sinagoghe in Europa, aggrediscono le comunità ebraiche e minacciano attentati. A Parigi, gli islamici radicali sono entrati in azione di nuovo, la settimana scorsa, prima attaccando la sinagoga, poi innescando una nuova rivolta nelle Banlieue. Sono, ormai palesemente, il braccio operativo di Hamas in Europa.
Ma poi c’è anche una “coscienza democratica”, ampiamente maggioritaria in Europa, che si risveglia da un lungo letargo ogni volta che scoppia un conflitto, e sciorina una serie di banalità. Non arriva a dire “fate l’amore e non la guerra”, ma qualcosa di peggio: “fate politica, non fate la guerra”. È la “coscienza democratica” di chi inorridisce di fronte all’elenco dei morti civili a Gaza, dimentica che Hamas usa i civili come scudi umani e non vuol sentire che Israele fa di tutto (anche sms, volantini e colpi d’avvertimento) per avvertire i locali ad abbandonare le zone che saranno colpite dai bombardamenti. È la “coscienza democratica” di chi ripete, a pappagallo, in continuazione: “la soluzione non è la guerra, ma l’accordo per due popoli in due Stati”. E non si rende conto che questa guerra nasce proprio dal fallimento della soluzione “due popoli in due Stati”: nel 2005 gli israeliani si sono ritirati da Gaza, hanno lasciato ai palestinesi l’onere e l’onore di autogovernarsi, in tutto e per tutto. Risultato? Ha vinto Hamas. Ed è subito scoppiata la crisi che dura tuttora.