USA 2012 – 09. PENNSYLVANIA

Questo articolo – pubblicato su Il Foglio – il nono di una serie dedicata agli swing states delle elezioni presidenziali Usa. Ecco i link agli articoli precedenti: Colorado, Nevada, Florida, North Carolina, Virginia, New Hampshire, Wisconsin, Iowa.


«Philadelphia a est, Pittsburgh a ovest e l’Alabama in mezzo». Soltanto la mente di James Carville, spin doctor di Bill Clinton nel 1992 (e consulente, tra gli altri, di Tony Blair ed Ehud Barak), poteva partorire una definizione così fulminante della Pennsylvania. Negli anni successivi a questa battuta, pronunciata nel 1986 durante la campagna elettorale che riesce a portare – dopo due tentativi falliti – il democratico Bob Casey Sr. sulla poltrona di governatore del Keystone State, Carville spiegherà che si riferiva soltanto alle contee del nord e del centro dello stato, quelle di tradizione più conservatrice, che gli analisti definiscono “The T” o, più scherzosamente, “Pennsyltucky”. Ma da allora la definizione continua a rimbalzare nell’immaginario collettivo nazionale. Anche se la realtà è più complicata.

Dopo una falsa partenza, con la vittoria di James Buchanan nel 1856 (+18% contro John Fremont), il Partito repubblicano trova quasi subito nella Pennsylvania una delle proprie roccaforti storiche. A partire dal 1860, il Gop riesce ad imporre il proprio candidato alle presidenziali per tredici elezioni consecutive. Il vantaggio repubblicano oscilla tra il risicato +2,5% di Rutherford Hayes contro Samuel Tilden nel 1876 e l’abissale +31% ottenuto da Theodore Roosevelt contro Alton Parker nel 1904. Ma in genere il distacco è raramente inferiore al 10% e spesso superiore al 20%. Sarà proprio Teddy Roosevelt, con il “Bull Moose Party” nato da una scissione del Gop, a spezzare questa serie vincente nel 1912, battendo William Taft e Woodrow Wilson (ma finendo alle spalle di ques’ultimo a livello nazionale). Quella del 1912, però, è soltanto una parentesi legata alla popolarità di un candidato anomalo. Perché dal 1916 in poi, il Partito repubblicano si conferma come la forza dominante dello stato, arrivando a toccare picchi eccezionali di consenso nel 1920 (+38% di Warren Harding contro James Cox) e nel 1924 (+46% di Calvin Coolidge contro John Davis).

Perfino Franklin Delano Roosevelt fatica a conquistare il cuore del Keystone State, perdendo nel 1932 contro Herbert Hoover (+5%). FDR riesce a sfondare nel 1936 (+16% contro Alfred Landon), ma vince di misura nel 1940 (+7% contro Wendell Wilkie) e nel 1944 (+3% contro Thomas Dewey). Lo stesso Dewey, nel 1948, riporta la Pennsylvania nella colonna degli stati “rossi” (+4% contro Harry Truman), ma la supremazia repubblicana non è più solidissima. Dwight Eisenhower vince due volte contro Adlai Stevenson, di misura nel 1952 (+6%) e più largamente nel 1956 (+13%), ma nel 1960 a prevalere è John F. Kennedy (+2% contro Richard Nixon). E il vento elettorale dello stato comincia decisamente a soffiare dalla parte opposta. Nel 1964 Lyndon Johnson passeggia su Barry Goldwater (+30%) e Hubert Humphrey batte ancora Nixon nel 1968 (+7%). La rivincita di Nixon nel 1972 contro George McGovern è netta (+20%), però la Pennsylvania torna democratica nel 1976 quando Jimmy Carter batte Gerald Ford (+3%). Le ultime vittorie repubblicane arrivano negli anni Ottanta. Ma Ronald Reagan nel 1980 (+7% contro Carter) e nel 1984 (+7% contro Walter Mondale), come George Bush Sr. nel 1988 (+2% contro Mike Dukakis), restano ampiamente al di sotto del loro dato nazionale. E questo scivolamento a sinistra dello stato matura definitivamente con Bill Clinton, che rifila una decina di punti di distacco a Bush Sr. nel 1992 e a Bob Dole nel 1996. Più combattute, invece, le elezioni che vedono George W. Bush sconfitto da Al Gore nel 2000 (+4%) e da John Kerry nel 2004 (+2,5%).

Nel 2008, infine, Barack Obama vince nettamente contro John McCain (+10%), ma paradossalmente si tratta di un risultato meno vistoso dei precedenti se comparato con il trend nazionale. Fino al 1952, insomma, i Repubblicani dominano la Pennsylvania. E le poche volte sconfitte che subiscono non sono decisive, perché arrivano in elezioni già perse largamente. Dal 1952 in poi, cambia tutto. E il Keystone State inizia a votare più “blu”. In media, nelle ultime 15 elezioni presidenziali la Pennsylvania fa registrare uno “spostamento” a sinistra del 4% rispetto al resto della nazione. Questo rende molto difficile, per il Partito repubblicano, essere competitivo nel 2012. I problemi, per il Gop, sono soprattutto due. E sono grossi.

Il primo si chiama Philadelphia: non tutte le grandi città votano in massa per i Democratici (Houston o Phoenix, per esempio) e non tutte le città che votano in massa per i Democratici sono grandi (San Francisco o Boulder, per esempio), ma fortunatamente per il partito di Obama, Philadelphia è contemporaneamente la sesta città più popolosa degli Stati Uniti e una roccaforte diventata sempre più “blu” nel corso degli anni. Nel 2008, i Democratici hanno raccolto l’83% dei consensi a Philly, mentre all’inizio degli anni Ottanta si fermavano appena al di sopra del 55%. Il graduale spostamento a sinistra della città coincide con i decenni del “white flight” (la fuga della classe media bianca nei sobborghi) e la crescita della comunità afro-americana (che oggi rappresenta il 44,8% della popolazione totale) e dei latinos (11,8%). Visto che poi, a Philadelphia, anche i bianchi votano in maggioranza per il Partito democratico, lo svantaggio accumulato dal Gop diventa davvero consistente.

Nelle ultime tre elezioni presidenziali, Philly ha votato il 60% più a sinistra del resto della nazione. Se George W. Bush, insomma, nel 2004 avesse conquistato l’80% dei voti a livello nazionale lasciando a John Kerry il 20%, il candidato democratico si sarebbe comunque aggiudicato la città di Philadelphia con un margine del 3-4%. Ad aggiungere danno alla beffa, per il Gop, anche i sobborghi che una volta pendevano dalla sua parte (e che, a differenza dell’area urbana, sono in rapida espansione) oggi sembrano saldamente in mano ai Democratici. Tanto che, nel 2008, il distacco di Obama nei suburbs sarebbe stato sufficiente a fargli conquistare la Pennsylvania anche senza i voti di Philadelphia. Questi sobborghi hanno due elementi in comune: sono la zona più ricca dello stato (le contee di Chester, Bucks e Montgomery occupano le prime tre posizioni nella classifica per il reddito medio delle famiglie) e sono in gran parte abitati da bianchi non-ispanici. Non a caso, da queste parti il Partito repubblicano ha dominato fino al 1992.

È stato Bill Clinton a cambiare drasticamente questa dinamica consolidata. E Obama a raccogliere i frutti più appetitosi di questo cambiamento. Se la Pennyslvania fosse come il Missouri – se, cioè, il resto dello stato fosse composto da solido territorio repubblicano – i Repubblicani avrebbero la ragionevole certezza di poter ribaltare lo svantaggio accumulato a Philadelphia. Ma in Pennsylvania c’è anche la zona industriale del sud-ovest, intorno a Pittsburgh (il secondo grande problema del Gop), a lungo bastione inespugnabile della coalizione politica creata da Franklin D. Roosevelt con il New Deal. Oltre alla sua città principale, in cui è presente una comunità afro-americana molto numerosa, il sud-ovest dello stato ha molto in comune le altre aree che compongono la parte settentrionale dell’Appalachia, come il West Virginia e il sud-est dell’Ohio.

La maggioranza degli elettori è “socially conservative” (il numero di iscritti alla National Rifle Association, da queste parti, è altissimo), ma più a sinistra sui temi dell’economia. Questo tipo di elettori appartenenti alla working class bianca si possono trovare nei posti più impensabili: ci sono i cattolici del Rhode Island o del Massachusetts, ma anche i boscaioli del Washington State e i lavoratori della Rust Belt, dal Minnesota allo stato di New York. Sono proprio loro il motivo principale per cui FDR è riuscito a trasformare una coalizione regionale, presente solo al Sud, in una forza nazionale capace di dominare la politica americana per decenni. A differenza di Philadelphia, però, in cui i Democratici sono in costante crescita, il sud-ovest della Pennsylvania si sta lentamente spostando verso i Repubblicani.

Il partito di Obama viene ormai sempre più spesso identificato con il partito delle élite e della costa. E questo provoca il graduale abbandono di quella che una volta era la spina dorsale della sua base elettorale. Paradossalmente, questo processo è iniziato proprio durante gli anni della presidenza Clinton, uomo politico amatissimo dall’elettore medio dell’Appalachia. A frenare i successi repubblicani nella zona, ormai, è solo l’alta concentrazione di voto nero nella contea di Allegheny (sede di Pittsburgh), ma nel resto del sud-ovest – da Westmoreland a Greene, da Washington a Fayette – le performance del Gop superano ormai quelle del Partito democratico. Al di fuori delle aree metropolitane di Philadelphia e Pittsburgh, la Pennsylvania è un posto molto particolare. Molti pensano al “Pennsyltucky” come a una sorta di area rurale abitata soltanto dai classici red-neck amanti delle corse Nascar, ma si tratta di uno stereotipo superficiale. Per prima cosa, questa zona è molto più popolosa di altre con un comportamento elettorale analogo (l’Arkansas rurale o l’Alabama, per esempio).

In molti casi si tratta addirittura di contee extra-urbane in rapidissima espansione come quelle ad ovest di Philadelphia (Lancaster e York) che da decenni rappresentano il serbatoio principale di consensi per il Partito repubblicano. A differenza dell’Appalachia, poi, non tutto il Pennsyltucky ha avuto una reazione “allergica” nei confronti della candidatura di Obama. Anzi. Intanto ci sono le enclave urbane tradizionalmente democratiche, come Eerie e Scranton, in cui la working class bianca sembra meno propensa ad abbracciare il Gop sulla spinta della “culture war”. Obama, poi, è andato bene nella contea di Centre (sede della Pennsylvania State University), in quella di Dauphin (con la sua forte comunità nera) e in tutta la Lehigh Valley (le contee di Northampton e Carbon), una sorta di estensione settentrionale dei sobborghi di Philadelphia che gli analisti considerano fondamentale per vincere nel Keystone State.

Anche se il Pennsyltucky resta una zona a forte maggioranza repubblicana, dunque, sarebbe sbagliato generalizzare in maniera troppo precipitosa. In un certo numero di contee rurali e in alcune piccole città industriali, i Democratici restano in vantaggio. E questo contribuisce a far pendere dalla loro parte la bilancia dell’equilibrio elettorale. Per strappare la Pennsylvania a Obama, Romney deve compiere un mezzo miracolo, sfoderando una prestazione addirittura superiore a quella di Bush Jr. nel 2004.

Prima di tutto deve cercare di migliorare i numeri del Gop nell’area metropolitana di Philadelphia e, soprattutto, nei suoi sobborghi. Poi deve riprendersi la Lehigh Valley, senza la quale nessun repubblicano ha speranze di vincere, espandendo magari il vantaggio accumulato da McCain in Appalachia e nelle contee occidentali dello stato. Con un turn-out inferiore, ma non troppo, a quello del 2008, per il candidato repubblicano potrebbe non essere sufficiente ripetere la performance con cui Pat Toomey, nel 2010, ha vinto di misura contro Joe Sestak al Senato (+1%). Il modello, semmai, dovrebbe essere la larga affermazione di Tom Corbett su Dan Onorato (+9%), sempre alle elezioni di mid-term, nella corsa per la poltrona di governatore. Corbett, in pratica, ha lasciato al rivale democratico soltanto Philadelphia e Scranton, pareggiando a Pittsburgh, vincendo nella Lehigh Valley e dominando il Pennsyltucky. Sembra tutto molto difficile da ripetere nel 2012. E per ora i sondaggi assegnano a Obama un vantaggio rispettabile. A giudicare dagli ingenti investimenti pubblicitari effettuati in Pennsylvania, però, il Team Romney non è ancora intenzionato ad arrendersi. 

(9/continua. Nella prossima puntata: il Michigan)

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