Non abbiamo bisogno dello stato

«Tutti noi tendiamo ad essere conservatori. A credere che la realtà che viviamo sia sempre stata così e sarà sempre così. Che lo Stato sia un’istituzione eterna e immutabile. Io sono qui proprio per spiegarvi che non è sempre stato, né sarà sempre così». Chi parla non è un profeta, venuto a Milano ad ammaestrare le genti, ma un simpatico economista di nome David Friedman. Non va confuso con Alan Friedman, che tanti italiani conoscono per le sue trasmissioni televisive. E nemmeno con Milton Friedman, che era suo padre.

Mentre la stragrande maggioranza degli italiani (fra coloro che lo conoscono) consideravano Milton il guru del “neo-iper-liberismo”, dal punto di vista del figlio era già troppo statalista. Partendo dalla stessa impostazione teorica del padre, David l’ha portata alle estreme conseguenze. Ed è diventato, nei primi anni ’70, uno dei padri dell’anarco-capitalismo. Nessun fraintendimento: solo libero mercato e niente Stato.

Nel suo libro più famoso “L’ingranaggio della libertà” (pubblicato in Italia da Liberilibri nel 1997) dimostra come qualsiasi funzione statale, dall’istruzione alla difesa, possa funzionare meglio se affidata ai privati nel libero mercato. Rispetto agli anarchici classici, David Friedman è sicuramente un pensatore atipico. Non vuole creare una futura società collettivista, in cui i beni sono in comune, i conflitti sociali sono risolti, l’uomo diventa altruista, educato e benevolo e lo Stato cessa di esistere.

Per Friedman (David) la società anarchica si può e si dovrebbe realizzare anche adesso, anche con i nostri brutti caratteri egoisti, i nostri comportamenti irrazionali, i nostri limiti di conoscenza. Perché, ribaltando un luogo comune duro a morire, l’utopia è l’idea di avere uno Stato funzionante. L’anarchia è la forma sociale più realistica, proprio per le caratteristiche tipiche dell’uomo. “Legge senza Stato” è il titolo auto-esplicativo della conferenza tenuta da Friedman a Milano, questa settimana, ospite dell’Istituto Bruno Leoni. «Ci sono almeno tre forme di legge nate senza aver bisogno di alcuno Stato: la prima è la proprietà, la seconda è il rispetto dei contratti e la terza è la giurisprudenza prodotta dalle corti». Proprietà, rispetto dei contratti e tribunali sono i tre pilastri dell’ordine. E funzionano anche senza Stato.

Siamo soliti pensare alla proprietà privata come a una delle leggi create dal nostro Stato (dal re, da un governo o da un parlamento). In Italia, addirittura, non è neppure considerata un diritto fondamentale. Eppure: «Non è un diritto inventato dallo Stato: la proprietà, non solo precede la politica, ma precede la nostra specie. Una forma primitiva di proprietà privata la vediamo applicata anche fra gli animali, con il loro senso di possesso del loro territorio».

Nelle relazioni fra gli uomini la natura non è molto diversa. «Hobbes descriveva lo stato di natura (precedente lo Stato, ndr) come una condizione di guerra di tutti contro tutti e di estrema miseria. Ma il filosofo fa un salto logico nel momento in cui crede che, quando viene instaurato lo Stato, con la sua polizia, finisca la guerra di tutti contro tutti. La polizia è, a tutti gli effetti, parte di questa lotta. Perché l’uomo in divisa o l’uomo in toga mi possono sbattere in galera e io non posso fare altrettanto con loro? Il fatto di conferire loro più poteri rispetto ai miei, crea più disordine, non più ordine. Lo stato di natura è già molto più equilibrato».

David Friedman conserva una visione estremamente ottimista sulla natura umana e sulla struttura della società, che definisce come una “rete di differenti strategie legali mutualmente riconosciute”: gli interessi dell’uno e dell’altro possono sempre essere ricomposti, senza bisogno di ricorrere alla violenza. I diritti di proprietà non vengono violati.

Non perché «la polizia li protegge», ma perché «io li proteggo» e gli altri sanno che «sono determinato a proteggerli». Questo mutuo riconoscimento c’è indipendentemente dall’esistenza di uno Stato, con la sua polizia e il suo sistema di giustizia. «A Chicago, dove sono cresciuto, nevica tantissimo. Prendiamo un esempio banale: un proprietario di casa fa una gran fatica a spazzare la neve nello spazio adibito al parcheggio. E lascia un segnale, a indicare che quel parcheggio è suo. Come un cane, segna il suo territorio. È uno spazio che gli appartiene, su cui ha faticato molto e quando torna sa che lo deve trovare libero.

Se vi trova un’altra macchina… quell’auto si guasterà, avrà i finestrini rotti o una riga sulla portiera. O qualcos’altro di molto spiacevole». Anche il rispetto dei contratti è nato prima dello Stato e può essere implementato senza di esso. Friedman, per spiegarlo, fa un esempio storico ed esotico: quando i giapponesi occuparono Formosa (l’attuale Taiwan) rispettarono la legge imperiale cinese. In quel codice, come scoprirono i giapponesi, non esisteva alcuna tutela per i contratti fra privati. Eppure i mercanti di Formosa commerciavano con le coste e facevano rispettare i loro contratti. Come? «Con due meccanismi principali. Una soluzione consiste nel ridisegnare il contratto in modo che le due parti effettuino lo scambio in simultanea, riducendo gli incentivi dell’altra parte a violare i patti.

Un’alternativa si basa sul rispetto della reputazione, strutturando il contratto in modo da soffrire una perdita di reputazione in caso di sua violazione». Il versamento di acconti e depositi, la presa di “ostaggi” materiali, sono tutti sistemi che hanno funzionato, pur in assenza di uno Stato (con le sue leggi, la sua polizia e i suoi tribunali) in grado di far rispettare contratti. L’amministrazione della giustizia, in sé, non è mai stata, tradizionalmente, un potere statale.

Friedman, da appassionato di storia medioevale, fa notare (in “L’ingranaggio della libertà”), ad esempio, come l’Islanda avesse leggi, ma non uno Stato. Sono i tribunali (privati, diremmo oggi) che ricompongono le liti in base al buon senso, al riconoscimento dei diritti delle due parti e allo studio dei precedenti. Il diritto anglosassone, giurisprudenziale, non si basa affatto su codici scritti, ma sulla consuetudine. Che non ha bisogno di un legislatore, dunque non necessita di alcuno Stato.

“Queste cose funzionavano in epoche antiche, ma adesso la società è più complessa e ci vuole uno Stato regolatore” direbbe un progressista. Ma Friedman constata come, nell’era di Internet, stiano tornando in auge metodi antichi. Internet stessa è una grande rete senza Stato. Eppure i contratti vengono rispettati, come avveniva all’epoca dei mercanti cinesi di Formosa: depositi, “ostaggi” e reputazione fanno sì che si rispettino i patti fra individui che non si sono mai visti e abitano a migliaia di chilometri di distanza.

Gli arbitrati (privati) stanno sostituendo gran parte della giustizia civile, proprio in forza della complessità degli scambi nella società contemporanea. È lo Stato, semmai, che appare come un carrozzone del passato, ben poco adattabile al dinamismo della società del terzo millennio. Possiamo benissimo farne a meno. E allora perché continuiamo a rassegnarci alla sua incombente presenza e ci facciamo togliere il 56% di quanto guadagniamo per mantenerlo in piedi?

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