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Giornalisti 2.0
La realtà è che a molti bastano 140 caratteri per trasformarsi in esperti: di terrorismo, mafia, esplosivi, complotti, storia occulta e inaccessibile della Repubblica Italiana. Forse hanno vissuto di striscio gli Anni di Piombo, ma è come se fossero stati lì, presenti, testimoni con i propri occhi del dramma vissuto dall’Italia tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli ’80. E, ancora peggio, molti si credono reporter d’assalto, giornalisti con il dito facile per battere gli ultimi aggiornamenti a colpi di tastiera. Tra Twitter e Facebook, quando una tragedia ha luogo, si scatena non solo la gara alla retorica a basso prezzo e facile consumo, ma a chi la spara più grossa.
Sabato mattina, alle 7.45 a Brindisi un ordigno uccide la sedicenne Melissa Bassi che è appena scesa dal pullman per recarsi a scuola. Dalla città pugliese giungono le prime notizie, nella confusione che come conseguenza logica accompagna vicende del genere. I giornali nelle loro versioni on line le ribattono, le agenzie lanciano un flash dietro l’altro e la macchina si mette in moto, la frenesia prende il sopravvento, tranne che per il solito inviato che giunto sulla scena immancabilmente riferisce di un “silenzio irreale” perché i luoghi comuni si adattano ad ogni esigenza. Alla faccia del silenzio irreale, è un gran casino. È stata la mafia, senza dubbio: una scuola intitolata alla moglie del giudice Giovanni Falcone, nelle ore che anticipano il passaggio della carovana per la legalità. Ma è sufficiente che gli investigatori e il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, dichiarino che al vaglio delle indagini ci siano diverse ipotesi e il calderone esplode: una strage di stato, un colpo al cuore di una nazione in difficoltà per metterne a repentaglio la sicurezza, per generare quel disordine dove sono abili a muoversi i servizi segreti deviati, la lunga mano dell’intreccio tra Stato e poteri paralleli. Social network o social media diventano punto di ritrovo delle fantasie più esasperate e gli stessi firmatari allegano ai messaggi parole di cordoglio per i familiari della giovane Melissa, unendosi nel dolore, ma evitando accuratamente di rispettarlo, impegnati in una cinica corsa alla visibilità.
Il peggio avviene a tarda mattinata, quando comincia a circolare la voce infondata che ci sia una seconda vittima: per qualcuno si chiama Veronica, per qualcun’altro Vanessa. Tifosi e guru di comunicazione hanno stabilito che tanto Facebook, ma soprattutto Twitter sono le nuove frontiere dell’informazione perché capaci di battere sul tempo i media tradizionali. La comunicazione non è necessariamente informazione e l’informazione ha delle regole che vanno rispettate se lo scopo di questa è, appunto, fornire una notizia: tipo le fonti, valutarne la veridicità e l’affidabilità. Al nome di Melissa per fortuna non si sono aggiunti quelli di Veronica e di Vanessa, ma le rettifiche per l’aver annunciato una morte mai avvenuta non sono di questo mondo virtuale. In compenso, si pubblicizzano gli appuntamenti per un sabato sera diverso dal solito, tra fiaccolate e minuti di raccoglimento per celebrare la vita, la sua dignità e dire no alle minacce.
Dalle parole alle immagini. Su Facebook comincia a circolare la foto di un tizio, il volto per gran parte oscurato da cappello e occhiali da sole, messa in giro da una radio web, tale Radiocorsara. Sarebbe l’autore della barbarie, colui che avrebbe premuto il tasto del comando a distanza per far detonare l’ordigno. Da Brindisi infatti arrivano conferme che più che di un’azione della criminalità organizzata possa trattarsi dell’iniziativa di un singolo, mentre il Tempo sabato sera va in stampa con il titolo di apertura che riferisce di un sospettato fermato dalle forze dell’ordine. Il fotogramma rimbalza di bacheca in bacheca e nessuno pare intenzionato ad accertarne l’autenticità, fino a quando non salta fuori che è stata ripresa da una pagina web del quotidiano londinese Evening Standard che riferiva di un finto attentato a Cambridge nel novembre scorso.
Paradossi: il pensiero comune vuole che chi è in cerca di verità e informazione genuina si rifugi sulla rete, balzando tra blog e account che a differenza delle maggiori testate giornalistiche non hanno padroni (banche, massoneria e lobby le più accreditate, specie di questi tempi) e dunque “servi di nessuno”, ma dove nello stesso tempo compaiono gli stessi vizi e i medesimi errori che alcuni cronisti compiono per arrivare prima della concorrenza e quindi un sentito dire diventa conferma e un indizio si fa prova. La tanto ambita qualità cede il passo al retweet o alla condivisione della notizia riportata da una testata giornalistica e dunque il teorema per cui i social network anticiperebbero e detterebbero l’agenda dell’informazione è tutto da dimostrare.
Dei giornalisti è lecito dire tutto il male possibile. Prima di sapere come siano andate le cose hanno già un articolo pronto nella loro testa e se non trovano conferme delle proprie supposizioni, non cambiano comunque idea, attirandosi il peggio da lettori e critici. Se dunque si è aperta l’epoca dell’informazione totale che richiede semplicemente un computer o addirittura solo uno smart phone per fornire il personale contributo, vanno accettate le controindicazioni: un flusso continuo di parole che di sicuro comunicano uno stato d’animo, un’opinione o un convincimento, ma non per forza una notizia. I fatti – questi benedetti fatti – lo dimostrano ed è un fiorire di improvvisazioni: dalle teorie che si sciolgono come neve al sole alle fonti che si rivelano pericolosi inciampi per i quali non si chiede scusa, perché le velocità con cui si aggiornano le home page non lascia tempo. Per non infilarsi nel territorio ingarbugliato delle regole, basterebbe seguire quella del buonsenso, specie se l’evento che scatena il tutto è drammatico e talmente imprevedibile da cogliere l’opinione pubblica impreparata.
C’è già una categoria che soffre seriamente di protagonismo: i giornalisti. Lunedì pomeriggio, alla notizia che a Brindisi un sospettato era sotto interrogatorio, un noto volto televisivo di cui non faremo il nome dal momento che si dice il peccato e non il peccatore ha sentenziato “l’hanno beccato”, innestando il solito circolo vizioso. Poche ore dopo quel tale è stato rilasciato.