Un patto per tutelare la libertà di Internet

internet2È il 1996 e siamo a Davos, in Svizzera, sede dell’annuale summit del World Economic Forum. Tra gli invitati di quest’anno ci sono anche importanti esponenti del mondo della cosiddetta Information Technology, come Michael Bloomberg e il fondatore di Microsoft Bill Gates. Il tema della rete inizia a fare capolino tra i grandi dell’economia mondiale. E, proprio in questi giorni, Bill Clinton sta maturando la decisione di firmare il “Communications Decency Act”, che consegna ad un’autorità federale il potere di censurare la trasmissione online di contenuti ritenuti “osceni”, mutuando in tutto e per tutto la disciplina regolatoria applicata alle radio e alle televisioni.

Da qualche parte, a Davos, c’è anche John Perry Barlow, noto ai più per essere l’ex paroliere della band di rock psichedelico Grateful Dead e per aver fondato (insieme a Mitch Kapor e John Gilmore) la Electronic Frontier Foundation, un’organizzazione no profit che si occupa di tutelare la libertà di espressione nel mondo digitale. Barlow ascolta le argomentazioni dei grandi della terra, vede i governi iniziare a discutere di internet come uno dei tanti ambiti da regolare senza comprenderne la portata rivoluzionaria, beve (per sua stessa ammissione) una discreta quantità di champagne, lascia le riunioni di Davos e si rifugia in una camera di albergo da dove inizia a scrivere il suo personale Manifesto. Nasce così la “Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio”, un testo asciutto e visionario al tempo stesso, in cui Barlow rivendica per internet e per i fruitori della rete il diritto ad “essere lasciati in pace”. Quel “leave us alone”, diretto formalmente a “voi del passato” ma sostanzialmente alle autorità statali, segna l’inizio di un filone culturale che identifica nella rete lo spazio vitale di un rinnovato spirito libertario. Lontano da confini fisici, regole materiali, distinzioni per razza o censo, gli abitanti del cyberspazio indipendente affermano con orgoglio di non aver mai accettato alcun tipo di “patto sociale” con lo stato e di considerarsi quindi “terra di nessuno” perché pensieri, parole e valore creato online appartengono solo agli individui che li hanno generati.

Internet è sempre stato considerato qualcosa di “sinistra”: da Howard Dean nel 2004, al movimento “Occupy Wall Street”, passando da Barack Obama e arrivando, in Italia, a Beppe Grillo e Matteo Renzi. Ci sono, invece, molti buoni motivi per considerare internet il luogo ideale per una destra degna di questo nome. Non c’è soltanto il manifesto di Barlow: ci sono anche le riflessioni di importanti futurologi come Alvin Toffler e George Gilder, esponenti tra i più brillanti di due filoni classici della destra americana, quello libertarian e quello conservatore. C’è poi l’esperienza concreta: la struttura profonda della rete presenta importanti analogie con qualcosa che la sinistra, soprattutto europea, ha sempre contrastato nel tempo con tutta la forza che ha. Internet è, infatti, la cosa più simile al libero mercato “perfetto” teorizzato dai grandi classici del pensiero liberale, da Von Hayek a Einaudi.

Quanto sta accadendo in questi anni avanza, però, dei dubbi che è opportuno affrontare. Come dovrebbero porsi liberali e conservatori davanti a soggetti privati che si comportano in tutto e per tutto come degli stati? Le grandi major dell’informatica sono diventate qualcosa di più di semplici aziende in competizione all’interno di un mercato regolato. Innanzitutto hanno assunto dimensioni sconosciute in passato: la sola Apple capitalizza oggi sul mercato una cifra pari al pil dell’Arabia Saudita. Inserito in un’ipotetica classifica e confrontato con gli altri paesi sovrani, il colosso di Cupertino risulterebbe oggi la 19esima potenza del nostro pianeta, superando di slancio economie moderne come la Svizzera, la Svezia, la Polonia, l’Austria e la Norvegia. C’è di più: queste aziende non sono solo grandi come uno stato, ma iniziano anche a rapportarsi con i propri utenti esattamente come fanno i governi. I casi di censura e oscuramento per motivi ideologici portati avanti da YouTube o la promozione (fuori dalle regole dichiarate) di alcuni contenuti messa in campo da Facebook dimostrano una chiara “agenda politica” parallela, e, in alcuni casi, sovraordinata rispetto alle sole dinamiche commerciali. L’inquadramento giuridico stesso dei nostri rapporti con questi soggetti, poi, inizia ad assomigliare sempre più ad una burocrazia europea che ad un rapporto privato tra un fornitore di servizi e un fruitore degli stessi.

Molti, oggi, si recano alle urne senza sapere su cosa si vota, sulla base di sensazioni e suggestioni, allo stesso modo in cui le persone accettano le condizioni di contratto fornite da Apple, Google o Facebook. Nessuno ha mai letto il programma di un candidato e nessuno ha mai letto a fondo quello che accettiamo quando ci iscriviamo ad un servizio online. Come buona abitudine di ogni governo nazionale, poi, queste aziende cambiano in continuazione le “leggi” che regolano i nostri rapporti e tendono a rendere molto complesso accedere ai database dove sono contenuti i nostri dati. Informazioni che, è bene ricordarlo, sono utilizzate con modalità e intensità sconosciute a larga parte degli utenti, che mai avrebbero consentito una tale violazione della propria privacy se solo fossero stati consapevoli di quello che stavano sottoscrivendo con un semplice “clic” in fondo ad un lungo testo che nessuno ha mai letto davvero.

Queste distorsioni rendono internet un luogo non fisico così radicalmente mutato rispetto alla Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio di vent’anni fa? Certamente no. Come ogni mezzo di comunicazione, la rete tende ad essere neutrale rispetto al messaggio che veicola e questa teorica neutralità rende internet ancora oggi una grande occasione da cogliere per chi aspira ad un ambiente in cui non esistano barriere all’ingresso, ci siano pochissime rendite di posizione e la competizione rappresenti la cifra più importante della convivenza tra iniziative economiche. È comunque evidente che, lontani dall’utopismo degli inizi, chi oggi ha a cuore il futuro e la libertà di internet ha il dovere di risolvere delle questioni che nel 1996 non si ponevano affatto.

La tentazione che molti hanno avuto è stata quella di armare nuovamente la mano regolatrice dello Stato. Un vizio comune a destra, sinistra e a molti governi nazionali. Non si tratta di un fenomeno circoscrivibile alla sola sinistra mondiale figlia del duo Bill Clinton-Al Gore: l’atteggiamento “statalista” ha finito per contaminare in tempi recenti anche un (presunto) leader della (presunta) destra francese come Nicholas Sarkozy. Al G8 del 2011, l’allora presidente transalpino ammonisce gli operatori del settore esplicitando il suo obiettivo di “civilizzare” internet e ricordando che “la rete non può essere considerata un universo parallelo dove non vigono le leggi che regolano gli stati democratici”. L’esatto contrario di quanto messo nero su bianco da Barlow e l’esatto contrario di quello che una “destra moderna” dovrebbe fare.

Questa furia regolatrice che vorrebbe porre nelle mani dello Stato il monopolio delle decisioni su quanto avviene online parte dal presupposto sbagliato che le condizioni di squilibrio si siano create a causa dell’assenza di un’autorità pubblica. È vero l’esatto contrario: queste grandi aziende proliferano e derivano le loro posizioni di forza dallo sfruttamento dell’inefficienza statale. I contratti che regolano i rapporti tra piattaforme e utenti sono così complessi perché le leggi lo impongono. Sono incomprensibili e scritti con linguaggio burocratico, perché così è stabilito in qualche provvedimento. Sono praticamente inapplicabili perché la giustizia (pubblica) è lenta e inefficiente e mette i più deboli nelle condizioni di non poter far valere i loro diritti. È un surplus, non un deficit, di mano pubblica quello che sta mettendo in evidenza alcuni lati oscuri della rete.

Questo vale ancor di più dal punto di vista strettamente economico. Internet è un grande acceleratore di imprese e di idee. Online è possibile creare un sito in meno di mezz’ora, farlo diventare un piccolo negozio in un’ora e offrire i propri prodotti al mondo interno con meno di 10 euro l’anno. Lo stato che dovrebbe tutelare gli utenti come si comporta? Come suo solito: limita, proibisce, crea regole inapplicabili e per questo mette fuori dal perimetro legale ogni tipo di iniziativa non tradizionale. Preferisce, insomma, la formalità burocratica all’innovazione sostanziale. Eppure le grandi rivoluzioni sono nate da rotture con il passato prodotte da idee capaci di rompere i paradigmi. Una regolazione pesante e pervasiva, modificabile solo con processi legislativi lunghi e spesso imprecisi, è il modo migliore per distruggere la più grande opportunità mai offerta alla nostra generazione.

Per questo, oggi, vent’anni dopo il manifesto di Barlow, è necessario pensare a una nuova “dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio”, aggiornata ma non stravolta rispetto all’originale. E solo i liberali e i conservatori, quelli insomma che hanno più fiducia nelle persone che nello stato, sono attrezzati per iniziare un cammino così complesso e articolato. La destra rinasce e torna centrale se si occupa di ciò che la caratterizza al di là di ogni contingenza: la libertà delle persone di crescere e di arrivare là dove il talento e le idee sono in grado di spingerle. Quella libertà che un tempo si ritrovava tra gli “animal spirits” del mercato e che oggi vive su internet. Trasformare la rete in un baluardo di resistenza contro la furia ideologica, etica e redistributiva di certi governanti non è solo una buona idea: è l’unica possibile. Per la libertà della rete e, soprattutto, per la nostra.

© Il Giornale, 9 novembre 2016

.

.

468 ad